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di G.R.

La Voce e il Tempo, 7 aprile 2023

“L’opportunità di studiare e laurearmi durante la detenzione mi ha regalato una seconda vita, oggi opero come volontario presso la Caritas diocesana. Ero un narcotrafficante, la Provvidenza si presentò con il volto degli uomini che mi fermarono, mi catturarono, mi chiusero in prigione”.

Il gruppo operativo antidroga del nucleo centrale di Polizia Tributaria di Roma, in collaborazione con la Guardia di Finanza di Fiumicino, mi arrestò a Roma in un noto Hotel del centro. Ero di ritorno dalla Spagna dove mi ero rifugiato dal 1996 per sfuggire al primo arresto. Una decina di uomini in borghese mi afferrarono, mi portarono in una saletta dell’Hotel e chiusero la porta.

Dopo essersi dichiarati poliziotti, venni fatto distendere a terra con la faccia in giù e perquisito. Un agente mi colpì con un calcio ai fianchi, ma venne subito rimproverato aspramente da un suo collega. Trascorsi una notte intera davanti alla scrivania di un commissariato romano, parlando pochissimo e stranamente sempre sveglio. A una certa ora del mattino, con le mani legate dietro la schiena, feci il mio ingresso nel carcere di “Regina Coeli”.

Fui perquisito con accuratezza in tutti gli anfratti corporali possibili, rivestito e spedito dal medico, il quale mi dichiarò sano in un batti-baleno. Ripreso dagli agenti, venni gettato in uno stanzone super affollato in attesa di non so che. Dopo 48 ore il cervello riprese a funzionare. Lo stanzone aveva sei letti a castello posti su due file di tre e un materasso per terra. Avrei dormito per terra molte altre volte nei miei trasferimenti.

Le pareti lerce e scrostate, il piccolo bagno nauseabondo. Un detenuto alto dagli occhi tristi mi diede la mano e mi cedette il suo posto nei letti a castello, poi con una certa ironia mi disse: “Hai perso la libertà, ma oggi sei un cittadino romano a tutti gli effetti, infatti qui a Roma abbiamo un detto: a via de la Lungara (l’indirizzo del carcere, ndr) ce sta ‘n gradino; chi nun salisce quelo nun è romano, e né trasteverino”.

Al sopraggiungere della notte la nuova realtà cominciò con insistenza ad attirare la mia attenzione. Non ero preoccupato per me, ero tormentato dall’idea della incredulità e disperazione in cui avrei gettato i miei famigliari alla notizia della mia carcerazione. Le conseguenze del mio reato le stavo vedendo in due dei miei compagni di cella, che in evidente stato di astinenza da droga picchiavano furiosamente sul blindato per poter essere portati in infermeria.

La mia prima tormentata notte in cella fu un susseguirsi di immagini sgradevoli sulle conseguenze delle mie azioni passate. Nato e cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, ultimo nato di sei figli, fin da piccolo avevo manifestato insofferenza e irrequietezza ai consigli e alle raccomandazioni dei miei genitori. Mamma mi diceva che, appena avevo imparato a camminare, scappavo sempre da casa in cerca di “quello che non avevo perso”. Ero colpevole e non avevo nessun tipo di giustificazioni a cui aggrapparmi per dare la colpa a qualcun altro del mio stato. I primi mesi di detenzione li ho trascorsi facendo “turismo carcerario”.

Mi svegliavano alle tre e mezza del mattino, mi davano un sacco nero (della spazzatura), lo riempivo con le mie cose e si partiva con la tradotta blindata dei carabinieri, con gli schiavettoni ai polsi, per raggiungere di volta in volta i Tribunali dove si svolgevano i miei processi: Vicenza, Como, Milano e ritorno a Roma. Alla fine, con una pena definitiva di ventun anni per narcotraffico venni collocato presso il carcere “Mammagialla” di Viterbo.

A Viterbo, ormai consapevole che la mia insofferenza e irrequietezza erano definitivamente imbrigliate e rinchiuse in una scatola di sardine, feci mio il consiglio di Giuseppe Ferraro in “Filosofia fuori le mura” che afferma: “Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni”. Padre Cristoforo, un francescano che allora era cappellano del carcere, mi chiamò per aiutarlo nella cappella e mentre gli parlavo del mio destino mi parlò della Provvidenza Divina.

Mi spiegò che Dio, tra i suoi disegni imperscrutabili, si serviva della Provvidenza in maniera singolare e immutabile di quello che doveva essere fatto e poi mediante il destino sovrintendeva nel tempo le cose che aveva preordinato. Non capii molto, lì per lì, ma mi fece intendere bene che Dio stesso aveva posto un freno alla mia disordinata vita e che era tempo che guardassi dentro me stesso. A quel punto espressi a padre Cristoforo il desiderio di studiare e con il suo aiuto e con il benestare della direzione mi iscrissi al Liceo Classico Mariano Buratti di Viterbo.

Era la prima volta che un detenuto si iscriveva al Liceo Classico ed erano tutti molto scettici sulla mia possibilità di arrivare alla fine. A quel tempo avevo capito abbastanza rapidamente che la logica della detenzione era quella di contenere le persone senza stabilire relazioni con la nostra vita, con la nostra esistenza e con il nostro destino.

Cioè mi era stato dato un tempo che si sarebbe consumato per nulla. Così come ero entrato così sarei uscito. Sarei stato preda di una subcultura carceraria e avrei passato il mio tempo nel fare gli stessi progetti per cui ero stato condannato. Nel 2003 sostenni gli esami di Stato con l’intera commissione del Liceo, che venne autorizzata ad entrare: venni promosso. Nello stesso anno venni a sapere che a Torino l’Università degli Studi, primo esperimento in Italia e penso in Europa, aveva aperto nel carcere due corsi di laurea in Giurisprudenza e Scienze Politiche e feci domanda di iscrizione, che venne accettata: mi trovai studente universitario nel carcere torinese. La situazione abitativa cambiò radicalmente.

A Viterbo eravamo in due in una cella striminzita con un bagno lillipuziano e sempre chiusa. A Torino una cella per ogni studente aperta tutto il giorno per le lezioni in aula. Devo ringraziare i miei compagni di cella di Viterbo che guardavano la televisione senza audio per lasciarmi il tempo di studiare. A Torino mi sono laureato in Scienze Politiche con una tesi in latino “De potestate regia et Papali di Jean Quidort”.

Sono più che mai convinto che lo studio in carcere sia una alternativa importante per condurre una persona a riflettere sul suo passato, a riprendere autostima di se stessa e questo percorso produce una recidiva insignificante. Dal 2008 sono in Caritas, prima come autore della rassegna stampa regionale, poi come volontario. Il pensiero di padre Cristoforo sulla Provvidenza ha dato i suoi frutti.