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di Marco Bentivogli

La Repubblica, 25 luglio 2022

Il nostro welfare va rafforzato e ripensato se vuole essere davvero universale. Purtroppo (si fa per dire), neanche questa volta un governo è caduto per l’importanza che ha assegnato alla questione sociale. Certo, il Pil al 3% è più che mangiato dall’inflazione. Siamo all’8%, un prelievo netto su salari, pensioni e risparmi. Ma se, come l’Istat ci ricorda, dal 2005 gli italiani in povertà assoluta sono triplicati, risparmiamo almeno loro la propaganda. Neanche le misure supplementari di protezione sociale, i “ristori” varati per la pandemia hanno intercettato né contenuto le nuove povertà, le cui mappe sono cambiate: Bankitalia ci dice che le famiglie più povere sono sotto i 40 anni e quelle che detengono la maggiore quota di ricchezza sono tra i 41 e i 65. Nei prossimi 30 anni avremo, in età da lavoro, 8 milioni di italiani in meno. Dati che ricordano come una gestione delle transizioni fatta di slogan, senza politiche, rischia di ampliare i divari.

La povertà si batte con il lavoro e con uno Stato Sociale efficace e giusto. Il nostro welfare va urgentemente rafforzato e ripensato perché le marginalità sociali crescono, le persone in difficoltà, soprattutto invisibili allo Stato, sono in aumento. Serve un “welfare umano”, perché anche se le prestazioni fossero efficienti (e non lo sono), non bastano. L’universalità dei servizi non è messa in discussione solo da alcune dottrine economiche privatistiche, ma in primo luogo da uno Stato in cui la scuola fallisce la missione educativa, i ritardi della sanità fanno crescere il ricorso al privato o la rinuncia a curarsi, e manca una politica abitativa. Il reddito di cittadinanza, in troppi casi è stato l’unico intervento. Va migliorato, contrastando gli abusi e dando corpo alle politiche attive.

I poveri hanno, da sempre, molti nemici: quelli che negano le estreme difficoltà delle condizioni di vita, i garantiti che si spacciano per ultimi e chi finge di ricordarsene per posizionamenti politici, totalmente innocui (quando va bene) sulla vita delle persone. Il welfare elettorale è stato questo, confondere i furbi con i poveri. Il populismo si nutre del racconto della questione sociale ma l’ha sempre confusa con la politica clientelare del consenso, nell’indifferenza delle categorie più forti che riescono a tutelarsi meglio e da sole. Gli ultimi e i penultimi hanno più bisogno di buona politica, di far presto. Sono quelli che veramente non possono aspettare. La sinistra (progressista e riformista) tornerà a rappresentare la domanda sociale se saprà mettersi in ascolto. Solo così si potrà far scuola di una virtù fondamentale: il discernimento. I tassisti, i balneari sembrano più i veri “poteri forti” che gli eredi della classe operaia.

Il perno di ogni politica economica e sociale deve essere l’occupazione dignitosa. Occorre fare riforme profonde, ridurre le aliquote Irpef. Uno stato sociale giusto, si fonda su un sistema efficace di accertamento dei redditi. Non si costruiscono politiche senza riportare nel monitor tutto il lavoro povero vero, quello che preclude ogni disponibilità di un reddito adeguato ai propri bisogni. Nel 2020 su più di 41,2 milioni di dichiarazioni dei redditi, 11,8 milioni sono risultate inferiori a 10.000 euro. In quei numeri, ci sono tanti evasori ma anche tanti lavoratori poveri.

Che fare? Non chiamiamolo salario minimo, ma serve una “soglia di decenza” sotto la quale non si può pagare un’ora di lavoro. Il “giusto salario” lo devono fissare i contratti collettivi ma indipendentemente dal lavoro (dipendente o autonomo) ci deve essere una soglia sotto cui nessuno può andare. La questione sociale e la produttività, l’occupazione e i salari si tengono. Nelle aree di lavoro scarso, povero o precario ci sono sempre due spie: i compro oro e le slot machine. Sono le bandiere del fallimento della comunità e della resa dello Stato. Nella consapevolezza che gli ultimi non votano e spesso non han voce, si punta sul rancore e la difesa corporativa degli altri. Per questo serve una politica che sappia dare continuità alle cose ben fatte, ricostruire i legami di solidarietà, e che non faccia sentire gli ultimi “scarti” o “merce elettorale”. Il loro riscatto ci rende umani.