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di Paolo Di Paolo

La Repubblica, 4 febbraio 2023

Più di uno vuole prendere le distanze dall’uomo divenuto un simbolo. “Ma sta morendo in carcere, è inammissibile”. Tre o quattro studenti, tolte le scarpe, lavorano con cura al grande striscione: “Al fianco di Alfredo”. Quello che dice “Lettere occupata” sventola da giovedì sera contro la facciata della facoltà, smosso da un vento che a metà pomeriggio - mentre sulla scalinata arriva l’ombra - fa quasi battere i denti dal freddo. L’occupazione lampo alla Sapienza si è praticamente già sciolta per immettere le sue energie nel corteo romano. Ed è lì che sarà forse possibile cogliere quanto composito, frastagliato, anche contraddittorio sia il movimento che alza la voce sul caso Cospito e sul 41 bis.

Stavolta non basta un colpo d’occhio: c’è da capire, da chiarire. O anche solo intuire: in pochi hanno voglia di parlare con le “testate nazionali” - quelle che hanno polemicamente sfogliato e discusso nella rassegna stampa autogestita di mezzogiorno e mezza. Avvertono il pregiudizio, gli schemi, il rischio di incasellamenti e di strumentalizzazioni. Respingono ogni accusa di ambiguità. La dialettica con i movimenti anarchici non appare né lineare né pacifica: c’è chi racconta di discussioni estenuanti fra militanti dei collettivi studenteschi intorno alle scelte da fare, alla coincidenza di istanze. Ma se l’anarchismo apre agli studenti, o ne accetta la sponda nella specifica emergenza, non apre però ad altri soggetti politici: rifiuta parecchi testimonial delle ultime ore, quasi tutti, taglia i ponti con aree di partito, pezzi di società civil-intellettuale, per quanto accorata rispetto alle condizioni di salute di Cospito. Gli anarchici non accettano intestazioni indebite della loro battaglia, si chiudono per evitare confusioni di ruoli e di discorsi.

Gli studenti lo sanno; e vanno avanti per una strada parallela: “al fianco di Alfredo”, sì, ma anche tenendo il punto su questioni che vanno oltre l’uomo-simbolo. Da cui qualche studente assicura di voler prendere le distanze: o quantomeno, chiarisce Pietro, da una biografia discutibile - quella storia personale, le strategie di lotta attuate. “Ma non è questo il punto: c’è un uomo che sta morendo in carcere, e questo è inammissibile da ogni punto di vista”.

Al momento del “microfono aperto”, chi prende la parola per primo usa lo schwa inclusivo e cita Zerocalcare. Insiste sì su quel corpo messo a rischio da uno Stato “che confonde giudicare e punire”, poi però allarga subito ad altri corpi. “Il caso di un singolo ne illumina molti altri”. I corpi invisibili abbandonati nella realtà di un sistema carcerario pensato “come una discarica sociale”. Arriva l’applauso convinto dei partecipanti - non sono un gran numero. Nemmeno nelle prime ore dell’occupazione della facoltà c’era una gran folla. Una ragazza me lo spiega con la paura. Richiamando la questione delle questioni: la morsa repressiva. Avvertita in sempre più occasioni: dalle cariche della polizia a ottobre davanti a Scienze politiche (per cui è scattata l’immediata occupazione della facoltà) alle perquisizioni, ai fermi in commissariato. Sentono “il pugno di ferro” e la criminalizzazione della solidarietà: “Si gioca a individuarne una buona e una cattiva, si stabiliscono zone rosse e si schiera la celere”.

Per questo - dice Miriam - è più il momento della pancia che della testa. C’è un malessere, una insofferenza ai livelli di guardia: studentesse e studenti non si sentono tutelati fino in fondo nemmeno nel luogo in cui studiano, chiedono alla rettrice una parola netta (“ha rafforzato il muro di silenzio”), e al governo di smetterla di soffiare sul fuoco con reprimende, intimidazioni, con i proclami sulle presunte minacce alla sicurezza dello Stato. Il clima “poliziesco” soffoca gli spazi di discussione politica. E Nina, studentessa di Fisica, sostiene che è vitale anche e soprattutto per riflettere - tanto più in queste ore - sull’equilibrio effettivo di una giustizia che, se non è anche rieducazione, diventa vendetta. A quel punto la violenza più scandalosa “non è quella di una macchina incendiata”. Uno Stato-Leviatano che assolve le funzioni di un dio in terra è un incubo da rigettare, dice al microfono uno studente attore; e poi evoca il Pasolini di Salò: l’immagine truce di una collettività costretta a “mangiare merda” servita su piatti d’argento.

C’è chi mi assicura che da questa scintilla sta nascendo un nuovo movimento studentesco, compatto nelle proprie istanze, nel rigettare un’idea di istruzione fondata sul merito come competizione agonistica, coeso nell’opposizione a un governo che mette nella sua agenda “emergenze irreali” (i rave, i bulli) e non vede, o non vuole vedere, quelle concrete. Oggi in piazza - intorno al nome di Cospito - si intrupperanno anime diverse, una galassia eterogenea - pezzi di società civile, militanti di partito, autonomi, mondo sindacale, diversi movimenti anarchici. E gli studenti. Che, mi dice uno di loro, “hanno cominciato a incazzarsi sul serio”.