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di Piero Sansonetti

Il Riformista, 24 maggio 2022

Giovanni Falcone è stato ucciso 30 anni fa dalla mafia. Era stato ostacolato in tutti i modi e combattuto dai suoi colleghi. Il Csm prima gli negò la nomina a capo dell’ufficio istruzione, cioè di succedere a Antonino Caponnetto, poi addirittura, su denuncia di magistrati e politici di sinistra, aprì contro di lui un gravissimo procedimento disciplinare che si concluse solo con la sua morte. Fu ostacolato e messo alla gogna, sui giornali, in Tv, di fronte all’opinione pubblica.

La sua colpa era quella di essere stato un magistrato rigorosissimo. E con doti professionali che nessun suo collega ebbe mai. Falcone era un gigante delle indagini e del diritto. E colpì al cuore Cosa nostra, in modo devastante, come nessuno mai era riuscito a fare. La colpì in processo e ne svelò tutti i meccanismi interni, il funzionamento, le fazioni, i capi. Non gli perdonarono il suo rigore, quando disse, perché ne era certo, che non esisteva un terzo livello della mafia.

Che la mafia era mafia ed era così potente perché indipendente e autonoma. E non dipendeva dalla politica. Poi alla fine la mafia lo uccise. Per vendicarsi del maxiprocesso. Per bloccare le indagini che aveva avviato col colonnello Mori su mafia e appalti. Perché riteneva che ormai fosse abbastanza isolato. Dopo la morte Falcone è diventato un’icona. Lo hanno portato in processione i suoi nemici. Quelli che Gesù chiamava i sepolcri imbiancati. Ora sono tutti lì in prima fila, a combattere i referendum e la riforma della giustizia come all’epoca combatterono Falcone. Che spettacolo poco decoroso!

Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco e del giovane Pignatone, che considerava uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, e gli diedero del traditore?

Quale Falcone volete ricordare? Quello del maxiprocesso, nel corso del quale inflisse a Cosa Nostra la sconfitta più devastante in due secoli di storia? O preferite ricordare il Falcone che escludeva l’esistenza del terzo livello, cioè di una cupola della mafia guidata dai politici, e che incriminò per calunnia il pentito Pellegriti, e si prese le contumelie di tutti gli antimafiosi doc dell’epoca? Ditemi quale preferite: il Falcone che interrogava Buscetta, e soppesava ogni sua dichiarazione, e cercava i riscontri, oppure il Falcone che quando la mafia gli mise una bomba sotto casa, all’Addaura, si beccò gli attacchi, le ingiurie e i sorrisi sfottenti di tutti, e dei giornali che fecero capire che quell’attentato era una messa in scena per dare un po’ di slancio alla sua credibilità?

Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, dai suoi colleghi, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco, il Procuratore, e del giovane Pignatone, che considerava un uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, cioè dal ministro, e fu accusato di tradimento perché era passato coi socialisti, cioè con i craxiani, con gli andreottiani, quindi, più o meno con la mafia?

O ancora volete parlare del Falcone al quale un Csm molto impegnato nella lotta alla mafia impedì di diventare capo dell’ufficio istruzione di Palermo, preferendogli Antonino Meli, perché anche se di mafia ne sapeva poco poco però era più anziano? O magari preferite che vi parli del Falcone messo sotto accusa dal Csm per i suoi atteggiamenti spavaldi, e che fu costretto a difendersi coi fucili puntati contro, compresi i fucili dei più brillanti magistrati e politici antimafia, escluso - onore a lui - Caselli? Sapete come finì quel procedimento disciplinare? Fu dichiarato estinto per morte del reo. Sapete a che serviva? A troncare sul nascere la sua candidatura alla procura nazionale antimafia. Si faceva così allora. Si fa così anche oggi. Son le correnti, bellezza.

No, no, non è come potete pensare: che ci siano due Giovanni Falcone. Uno passionario e l’altro prudente. Uno gradasso e l’altro pauroso. Uno contro la mafia e l’altro con il potere. È quello che la rispettabile associazione “l’antimafia siamo noi…” ha sempre voluto farci credere. Fino a che Falcone non è stato ucciso da Cosa Nostra, tra qualche riga cercheremo di capire perché. Poi la rispettabile associazione ha cambiato linea (dopo averlo processato e messo alla gogna anche in Tv…) e ha deciso di sequestrarne la memoria. Falcone e Borsellino - ha stabilito - sono una cosa nostra e nessuno ha il diritto di toccarli. Santi che stanno lì a dimostrare che noi abbiamo ragione, che le persone che indichiamo al sospetto sono colpevoli e vanno maciullate. Che i magistrati sono eroi in trincea e rischiano tutti i giorni la vita.

Non è così. Falcone era uno solo. Era un gigante. Di Falcone si possono dire tante cose, ma due sono evidenti e incontestabili. La prima è che era un magistrato con doti professionali clamorose, che forse nessun altro magistrato ha mai avuto; la seconda è che aveva una idea alta del diritto, e aveva questa idea alta non perché fosse un garantista dalla parte degli imputati, ma perché era convinto che quello che contava, nella giurisdizione, fosse la sentenza di terzo grado, e che il magistrato doveva calibrare le accuse e i processi a seconda delle prove che aveva o che poteva avere in mano, e doveva rispettare tutte le regole, altrimenti rischiava il fallimento del suo lavoro.

Oggi sono pochi i magistrati di prima fila che ragionano così. Oggi quel che conta è l’effetto che fa. Cioè il rumore che si può realizzare con un arresto, una conferenza stampa, un giro in Tv. Che poi un procedimento giudiziario si concluda con la condanna e l’assoluzione conta poco, conta sbattere un po’ di gente in carcere e tenercela per più tempo possibile.

La campagna contro Giovanni Falcone condotta con incredibile disponibilità di mezzi all’inizio degli anni 90 è un fatto quasi unico nella storia della magistratura. Falcone fu delegittimato prima dai suoi colleghi (destra e sinistra insieme) in modo sistematico, e poi dai politici e poi dai giornali. Ho dei ricordi di quell’epoca. Ero caporedattore all’Unità e mi occupavo anche di Sicilia e di mafia. Noi avevamo sostenuto Falcone convinti, all’epoca del maxiprocesso, poi avevamo iniziato a sospettare di lui. Ci aspettavamo che azzannasse al collo il pentapartito, Andreotti, i socialisti, perché anche allora, un po’ come oggi, la sinistra era così. Residui di stalinismo.

Cioè speranza che qualche Potenza superiore riuscisse a ottenere i risultati che non arrivavano sul campo. Il Pci e poi il Pds stavano perdendo voti e l’illusione era che il colpo di magia ai propri avversari arrivasse da fuori. Ma Falcone dopo aver abbattuto il vertice di Cosa Nostra si rifiutava di servire su un piatto d’argento la tesi che il vertice dei vertici fosse la politica. E in particolare la Dc. E in particolare Andreotti. E questo apparve come un tradimento.

Era solo la dichiarazione onesta di un magistrato onesto che aveva capito davvero la mafia e la sua struttura. A noi non piaceva. E nel 1991 ci fece indignare una sua intervista nella quale esplicitamente diceva che non era la politica a guidare la mafia, casomai il contrario. Il terzo livello era fantascienza. Pubblicammo su l’Unità un articolo di un intellettuale prestigiosissimo come il giurista Alessandro Pizzorusso, che stroncava Falcone. Seppellendo la sua candidatura alla Superprocura. Vi dico la verità: anch’io ero abbastanza convinto. Sebbene stimassi Falcone. Lo avevo seguito per molti anni, lo avevo conosciuto anche personalmente, non lo consideravo certo un farabutto. Però…

Quel pomeriggio del 23 maggio, quando arrivò la notizia dell’attentato, restai senza parole. Dovevo fare il giornale, l’Unità, perché il direttore che era Walter Veltroni (ma era arrivato appena da due giorni e non aveva ancora gran dimestichezza) non era in redazione per non so quale impegno politico. Facevo il giornale e mi sentivo morire. Capiì all’improvviso di non avere capito niente. Capii anche che l’abbandono da parte della sinistra poteva aver favorito i mafiosi nel loro disegno. Stavo malissimo.

Il giorno dopo chiesi a Veltroni di poter scrivere un articolo di scuse a Falcone. Mi disse di sì, e lo pubblicò come editoriale di pagina 2. Non lo trovo più quell’articolo perché l’archivio dell’Unità è bloccato. Ho trovato queste poche righe in rete, e le trascrivo: “Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo…. Siamo stati faziosi”.

Perché hanno ucciso Falcone? Credo per due ragioni. La prima è la vendetta, per avere decapitato Cosa Nostra e per averne svelato, per la prima volta, lo scheletro interno, il funzionamento e il Dna. La seconda è che Falcone aveva avviato un dossier su mafia e appalti che considerava importantissimo e che aveva affidato al colonnello Mori. Quel dossier fu archiviato due mesi dopo la sua morte, sebbene Borsellino avesse chiesto di lavorarci. Non avvertirono Borsellino di aver chiesto l’archiviazione. La mafia considerava quel dossier molto pericoloso.

Coinvolgeva moltissime aziende del nord. Andò a finire che invece di produrre un processo agli autori dei rapporti tra mafia e appalti quel dossier produsse un processo al colonnello Mori, cioè all’autore del dossier, l’uomo forte di Falcone. È così: era il suo destino. Essere perseguitato perché troppo Grande. Anche dopo la morte è stato perseguitato. In cambio, per ricompensarlo, ne hanno fatto un’icona che viene portata a spalla dai suoi nemici. Fatemi usare le parole del Vangelo: “sepolcri imbiancati”.