sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di don Otello Bisetto*

lavitadelpopolo.it, 22 aprile 2022

Alla condanna per le violenze, avvenute all’interno dell’Istituto penale minorile lo scorso 12 aprile, si unisce il monito a non dimenticare gli obiettivi rieducativi della pena.

Dopo i gravi fatti accaduti nell’Istituto penale per minorenni di Treviso nella notte del 12 aprile, ai quali la cronaca locale ha dato moltissimo risalto, vorrei dire quanto sono triste e amareggiato, e ribadire che la violenza non può mai essere la strada giusta per risolvere i problemi.

Non sta a me commentare quanto accaduto, per il fatto che non ero presente in quel momento. Come cappellano dell’Ipm, ho il compito di dialogare con tutti. Con i giovani detenuti, per ridare loro speranza e far loro ritrovare la fiducia che hanno smarrito. Con tutto il personale che lavora all’interno dell’Istituto (Polizia penitenziaria, educatori, sanitari e amministrativi), al quale offro la mia collaborazione e anche il conforto spirituale, e che merita tutto il mio rispetto per il compito delicato e difficile a cui è chiamato quotidianamente.

In questo momento mi sembra un esercizio inutile chiamarci fuori dicendo: “Io l’avevo detto”. Ciò che è accaduto all’Ipm di Treviso, diventi, piuttosto, un’occasione in cui ciascuno assuma il suo compito in modo responsabile, per il semplice fatto che si tratta, comunque, di minorenni e proprio per questo vanno tutelati. Sul fatto che dei minori, o giovani, finiscano in carcere, mi permetto di dire che, probabilmente, anche la collettività si dovrebbe interrogare su quanto “non” sia stato attuato affinché ciò non accadesse. E una volta in carcere, possiamo ben immaginare che vi portino anche gli atteggiamenti devianti, tra i quali la violenza, che sono il loro “bagaglio” di esperienza. È solamente offrendo una vera opportunità di riscatto attraverso un percorso rieducativo che si può evitare l’irreparabile. Chi lavora in Carcere minorile sa perfettamente che questo è l’obiettivo che si persegue con ogni giovane che entra in carcere, e che solo un vero lavoro di squadra è la condizione necessaria affinché questo si realizzi.

Vorrei qui soffermarmi su un aspetto problematico che grava sugli Istituti penali per minorenni in tutta Italia: la questione dei Msna (minori stranieri non accompagnati). Essendo minori non accompagnati, sono a carico dei Comuni ai quali vengono assegnati. Un cittadino deve lecitamente pensare che se i Msna sono a carico delle Amministrazioni locali, esse devono garantire tutto, come lo farebbe una famiglia che si fa carico dei propri figli.

Vitto, alloggio, istruzione, formazione professionale, inserimento sociale e lavorativo. I Comuni hanno certamente più risorse di una normale famiglia e quindi per questi Msna dovrebbero esserci maggiori opportunità di inserimento, di crescita e di riscatto. Cosa non funziona perché, invece di aderire al “programma di inclusione”, alcuni minori non accompagnati entrano nella rete della criminalità organizzata? Posso dire che si tratta quanto meno di “inefficienze” del sistema Italia?

E questa disfunzione, come tante altre di cui il nostro Paese è campione, non può sempre ricadere sul sistema carcerario. Infatti, ciò che è accaduto nel carcere minorile di Treviso mette in evidenza una situazione generale delle carceri italiane: le condizioni di promiscuità e di sovraffollamento. Il carcere non può diventare un “tritacarne”, un luogo dove confluiscono tutti i problemi e le contraddizioni che la società non ha affrontato, non ha saputo risolvere o delle quali non vuole farsi carico. Infatti, in carcere arriva di tutto (per esempio i tossicodipendenti e gli affetti da problemi mentali) che avrebbero bisogno di ben altro “percorso terapeutico” e invece vengono inseriti nel sistema carcerario che non ha le risorse (finanziarie e umane) per far fronte alla complessità di queste emergenze. Come si può pretendere che un carcere possa fronteggiare le tante situazioni di disagio, senza che tutto questo vada a incidere sul morale e sulla serenità del personale al quale si chiede troppo spesso di fare l’impossibile?

Ecco, allora, la necessità di una riflessione seria di tutte le parti impegnate nel difficile compito di rieducare il detenuto e reinserirlo nella società civile, per fare in modo che il carcere non si riduca a “dormitorio”, o peggio a un “lazzaretto” dove parcheggiare “casi sociali irrisolti”. Il compito del carcere è di raggiungere gli obiettivi indicati dall’articolo 27 della Costituzione Italiana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

*Cappellano dell’Ipm