sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Claudio Foti*

Il Dubbio, 13 aprile 2024

Non posso pronunciarmi su questioni che non conosco: non posso entrare nel merito della responsabilità penale della signora Pifferi, accusata di aver fatto morire la propria piccina o nel merito delle contestazioni rivolte alle psicologhe che hanno seguito questa donna in carcere. Intervengo su una specifica accusa formulata nei confronti delle due colleghe: in una relazione di consulenza psichiatrica disposta dal Tribunale di Milano, il consulente ha affermato che le due operatrici hanno lavorato più del dovuto, stante il fatto che l’intervento sanitario in carcere non è intensivo, tranne in situazioni di rischio suicidario: “L’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti non era appropriata, non era coerente con una situazione non allarmante”.

Dunque le due operatrici del carcere di San Vittore non avrebbero lavorato troppo poco, ma troppo! Questo sembrerebbe diventare un comportamento sospetto.

Ora, ciò che lamentano i detenuti in tutte le carceri è la forte carenza di colloqui da parte degli psicologi. Se c’è qualche curante che si motiva a colloqui frequenti, intravvedendo prospettive di cambiamento nel detenuto o rispondendo in qualche modo a suoi bisogni, diventa sospetto e indiziato di reato. Chi ha lavorato per anni nel campo della tutela può affermare che l’accusa contro le due psicologhe è assurda, ma coerente con un clima culturale, presente talvolta nella stessa comunità degli psicologi: il lavoro terapeutico, svolto con impegno empatico, crea diffidenza.

Bisognerebbe piuttosto attenersi ad un lavoro centellinato nei tempi e nella disponibilità emotiva secondo le risorse predefinite dall’istituzione, secondo le procedure stabilite dall’alto, secondo uno stile seguito da una parte degli operatori stessi, in base a cui l’impegno professionale va erogato col contagocce, pensando innanzitutto a difendere il proprio ruolo e non certo pensando alle disponibilità al cambiamento che si possono aprire tra i pazienti.

Ciò che ha disturbato nel progetto innovativo di Bibbiano, che è stato pesantemente criminalizzato dall’inchiesta Angeli e Demoni, è stato proprio questo: gli assistenti sociali, gli psicologi, avrebbero fatto “troppo” rispetto agli standard di svolgimento burocratico del ruolo. Troppi casi di abuso emersi! In realtà, il numero delle cartelle sociali, relative a situazioni di abuso, che pure cresceva in Val d’Enza, restava coerente con i dati italiani e ben al di sotto delle percentuali dei casi di abuso seguiti a livello europeo. Ora l’azione per ridurre gli abusi nascosti dovrebbe essere considerata meritoria e la crescita della capacità di un servizio di far emergere il sommerso non dovrebbe essere vista con sospetto.

Invece, no! Gli operatori a Bibbiano mostravano “troppo impegno” e ci mettevano pure il cuore, impegnandosi nella prevenzione e nel contrasto della violenza sui minori, con quel coinvolgimento emotivo e cognitivo indispensabile per poter svolgere bene il compito. E sono stati criminalizzati. Gli psicologi attivavano l’empatia che è una risorsa trasformatrice e quindi disturbante rispetto all’omeostasi delle istituzioni e della comunità sociale: secondo una logica purtroppo diffusa, i “disgraziati” come Alessia Pifferi e come le vittime di abuso dovrebbero essere lasciate al loro destino.

Così l’empatia diventa sospetta e possibile indicatore di un crimine. Se due psicologhe decidono in scienza e coscienza di effettuare colloqui intensivi con una detenuta in ogni caso sofferente, al di là del reato di cui è accusata, come possono per questo essere criminalizzate? La “partecipazione affettiva” (Ferenczi) è un movente fondamentale della cura delle persone più fragili. Con questo impegno emotivo e relazionale non si fuoriesce dal ruolo dello psicologo, si tenta al contrario di realizzarlo pienamente.

Che società è questa in cui la “partecipazione affettiva” del curante diventa un crimine? Quale cura è proponibile se gli psicologi devono risparmiare sul numero dei loro colloqui, devono moderare la loro disponibilità emotiva, devono frenare la loro identificazione con i soggetti impotenti e sofferenti di cui sono chiamati ad occuparsi? Attraverso l’empatia lo psicologo cerca di compiere un viaggio esplorativo nella mente dell’altro, rimanendo se stesso e rimanendo dunque nel proprio ruolo e nel proprio statuto professionale.

Dunque l’empatia non può essere intesa come uno slancio passionale di tipo fusionale, senza rigore e senza rispetto delle regole. Il mondo istituzionale, che accusa le psicologhe del caso Pifferi di aver lavorato troppo, non comprende ciò che aveva intuito invece un grande psicoanalista, Kohut, che parlava di “empatia scientifica” e di “scienza empatica”. La scienza della trasformazione rivolta anche ai soggetti perdenti.

*Psicoterapeuta