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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 23 luglio 2023

Mentre a Roma si tiene l’attesa conferenza internazionale sulle migrazioni, dove la prima ministra Giorgia Meloni avrà il presidente della Repubblica tunisina Kais Saied come ospite speciale, nel paese nordafricano si assiste a uno dei drammi umanitari più intensi della sua storia recente. Da quando il 2 luglio scorso sono iniziate vere e proprie deportazioni di massa da Sfax, la seconda città della Tunisia e uno dei punti strategici per le partenze lungo la rotta centrale del Mediterraneo, si stima che più di 1.200 persone di origine subsahariana abbiano vissuto per giorni senza cibo né acqua lungo il confine algerino e libico.

“Guarda questo neonato di sette mesi - raccontava una settimana fa al manifesto Ibrahim (nome di fantasia, ndr) in uno dei centri dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) di Médenine - ha vissuto cinque giorni senza bere una goccia d’acqua. Com’è possibile tutto ciò ?”. Dubbi che sono destinati a rimanere senza risposta. Mentre l’Ue, con l’Italia in testa, è impegnata nella missione di ridurre le partenze dalla sponda sud e mantiene un enigmatico silenzio su quanto sta succedendo nel piccolo Stato nordafricano, nel paese non arrivano più informazioni dalla zona militarizzata alla frontiera con la Libia. È accessibile solo alla Croce rossa internazionale, impegnata a fornire un aiuto ridotto e prelevare le persone per portarle in luoghi sicuri. Al momento ci sarebbero ancora centinaia di persone che continuano a trovarsi in un limbo all’apparenza senza soluzione. Anche perché chi prova a rientrare in Tunisia segnala di essere respinto a colpi di proiettili e gas lacrimogeni.

Tra chi non potrà mai fare ritorno nel paese ci sono una mamma e sua figlia, morte di stenti abbracciate in quella zona desertica, in una delle immagini più crude che sono riuscite a bucare il muro di gomma delle autorità tunisine. Un muro eretto anche nei confronti della società civile locale. Organizzazioni come il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), Human Rights Watch, Alarm Phone e Avocats sans frontières non hanno mai smesso di denunciare quello che sta avvenendo. Sia per quanto riguarda la constatazione di non poter considerare la Tunisia un paese terzo sicuro, sia per la richiesta di una chiara presa di posizione da parte dell’Unione europea, sulla carta da sempre impegnata al rispetto dei diritti umani.

Rivendicazioni che Saied, da parte sua, non vuole ricevere. Impegnato da due anni a immettere la Tunisia in un percorso istituzionale sempre più autoritario, ha prima accusato le Ong di lavorare solo attraverso comunicati stampa e di non aver fornito un aiuto concreto rispetto a questa situazione e poi si è impegnato a lanciare un chiaro messaggio a chiunque non fosse d’accordo con le sue azioni: “I social network si sono trasformati in piattaforme di diffusione di fake news, rumori e diffamazioni contro gli alti responsabili dello Stato. È ora di mettere fino a tutto questo”, ha dichiarato pochi giorni fa. Non è un caso, quindi, che le ultime mobilitazioni a Tunisi siano andate pressoché deserte.