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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 13 luglio 2023

In Tunisia continuano le violenze contro i subsahariani. Chi è ancora libero si nasconde tra gli alberi: “Ma la polizia ci ha rubato tutto”. La strada che porta verso El Amra è una lunga striscia di cemento tutta dritta. A circa 20 chilometri da Sfax, a sinistra e destra di quell’asfalto rovente, cominciano distese di ulivi. Il tipico paesaggio tunisino, se non fosse per un piccolo particolare. A luglio 2023 è facile imbattersi in gruppi di subsahariani che tra gli alberi hanno trovato un rifugio temporaneo. C’è una ragione: da più di una settimana nella seconda città della Tunisia migliaia di persone originarie della Guinea, Camerun, Costa d’Avorio, Mali e Sudan si sono trovate senza casa, lavoro, esposte a violenze di ogni tipo e senza accesso ad acqua, cibo e cure mediche. Chi un’abitazione ce l’ha ancora vive nel terrore di perderla da un giorno all’altro.

Da inizio mese a Sfax le tensioni che da anni si registravano tra la popolazione locale e la comunità subsahariana sono definitivamente esplose dopo che si è sparsa la voce della morte di un 38enne tunisino per mano di tre camerunensi. Un episodio alimentato in precedenza dal duro discorso del presidente della Repubblica Kais Saied il 21 febbraio scorso quando ha affermato che nel paese era in corso un processo di “sostituzione etnica da parte dei migranti subsahariani”.

“Devo ringraziare le famiglie tunisine che abitano su questa strada per darci pane e acqua quando ci vedono camminare altrimenti non avremmo niente”. Alpha Koulibaly ha 25 anni ed è partito per il Nord Africa nel 2015. All’epoca aveva 17 anni. Il suo racconto avviene mentre insieme a suo fratello e ad altre dieci persone accompagna una donna con sua figlia di poco più di un anno a più di dieci chilometri di distanza: “Abbiamo trovato Khadija lungo la strada, stava andando nella direzione sbagliata. Un tunisino si è offerto di accompagnarla ma prima di salire in macchina le ha chiesto un rapporto sessuale. Ora la portiamo dai suoi amici e poi torniamo indietro. In mezzo ai campi ci saranno più di mille persone”. Tra andata e ritorno sono più di venti chilometri. La temperatura alle due del pomeriggio segna più di 40 gradi.

Basta percorrere altri pochi chilometri per imbattersi in un incrocio insignificante. Presa la destra, poco dopo si apre uno scenario fatto di decine di case in costruzione abitate da tunisini, un chiosco che vende acqua e altri beni di prima necessità e due café. Almeno 200 persone di origine subsahariana aspettano che il tempo passi e qualcosa succeda. “Qui non va più niente - racconta un giovane ivoriano di poco più di 20 anni - da quando è cominciata la guerra una settimana fa mi trovo in questo posto senza niente. Una volta al giorno la polizia passa per rubarci soldi e telefono. Ci hanno cacciato di casa con i machete e bastoni e ora non so che altro fare. Alcuni amici sono stati arrestati, altri li hanno portati verso il deserto e non riesco più a chiamarli. Non c’è altra scelta se non aspettare qui e poi partire”.

Il deserto. L’altro lato di una vicenda che a oggi quantificare con numeri esatti sembra impossibile. Sempre da inizio luglio in Tunisia si sono verificati casi di vere e proprie deportazioni di massa da Sfax lungo il confine con Algeria e Libia. Le ultime stime parlano di quasi 1200 migranti che per interi giorni non hanno bevuto, mangiato e non hanno potuto curare le ferite causate dalla violenza delle autorità locali. In un primo momento diverse agenzie di stampa e alcune segnalazioni della società civile hanno riportato che queste persone, tra cui richiedenti asilo, lavoratori, studenti universitari, bambini e neonati erano state dislocate tra le città di Medenine, Tataouine e Ben Gardane nel sud della Tunisia. Oggi la versione sembra leggermente diversa: chi è stato inizialmente “accolto” a Medenine è stato di nuovo spostato verso un luogo sconosciuto, mentre continuano a registrarsi casi di respingimenti collettivi. L’ultimo in ordine di tempo sarebbe avvenuto martedì.

A oggi sarebbero più di 150 le persone respinte verso la Libia. In alcuni video si può sentire chiedere disperatamente un po’ d’acqua. Per quanto riguarda il confine algerino, nessuno ha più notizie degli oltre 200 subsahariani trasferiti negli scorsi giorni. Il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) ha potuto verificare la notizia di due morti ma i casi potrebbero essere molti di più. Il 6 luglio il manifesto era riuscito a contattare Daina, cittadina del Camerun. Era insieme ad altre sei persone tra cui un bambino di tre anni: “Siamo stanchi, io sono l’unica che ha ancora il cellulare e si sta scaricando. Dopo non sappiamo cos’altro fare”, aveva detto. Oggi quel telefono non squilla più.

In questo contesto parzialmente nuovo (negli scorsi anni si sono registrati casi di respingimenti collettivi ma mai di queste dimensioni), risuonano ancora le parole dell’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) della sezione di Ben Gardane, che fa parte del sindacato più importante del paese. In uno scarno comunicato ha chiesto alle autorità tunisine di evacuare immediatamente i locali dove avevano trovato rifugio le persone respinte. Un segno evidente di preoccupazione rispetto a un clima di tensione diffuso in tutto il piccolo Stato nordafricano.

Hanno fatto ancora più rumore le parole del presidente della Repubblica Kais Saied pronunciate il 9 luglio: “I migranti - ha detto al termine di un incontro con la prima ministra Najla Bouden Romdhane - stanno ricevendo un trattamento umano e conforme ai nostri valori. La nostra nazione non sarà destabilizzata da false informazioni e foto prese all’estero. La storia serve a sistemare le cose, il popolo tunisino ha preso la sua decisione e non indietreggerà. Queste persone si ritrovano in cerchi criminali che minacciano i paesi e i popoli coinvolti da questo fenomeno”.