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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 15 aprile 2023

Il decesso del 35enne calciatore che si era dato fuoco per protesta torna a scuotere il paese. Nizar Aissaoui era andato alla polizia per denunciare un abuso. Incriminato per terrorismo. Morire per un chilo di banane. In una serie di tragiche circostanze, Nizar Aissaoui è deceduto nella notte di giovedì al centro grandi ustioni di Ben Arous dopo essersi dato fuoco tre giorni prima nella piccola città di Haffouz vicino a Kairouan, nella Tunisia centrale.

Una storia, quella del 35enne calciatore tunisino con alle spalle una discreta carriera in patria, che riassume tutto ciò che non va nel paese. Prima di prendere la drastica decisione Aissaoui si era recato in un negozio di frutta e verdure per acquistare un chilo di banane. Il proprietario gli aveva fatto un prezzo fuori dalle logiche di mercato, dieci dinari (poco più di tre euro, ndr). Da lì è nata una discussione che ha portato il 35enne a recarsi al posto di polizia di Haffouz per denunciare quanto avvenuto. Tuttavia, invece di ascoltare l’intera vicenda, le autorità locali hanno notificato ad Aissaoui l’apertura di un fascicolo contro di lui per un caso di terrorismo dove sarebbe stato coinvolto in prima persona. La risposta è stata evidente: uscito dalla caserma, il giovane tunisino prima ha pubblicato un post su Facebook per denunciare l’accaduto (subito cancellato), poi ha avviato una diretta sullo stesso social network.

Nelle immagini dove risuonano le urla disperate dei passanti, si vede Aissaoui ripetere la frase “dieci dinari al chilo!”, prendere l’accendino e darsi fuoco su dei vestiti pregni di benzina. In pochi istanti in cielo si è alzata una colonna di fumo nera e, in pochi giorni, l’ex calciatore sarebbe morto sul lettino di un ospedale poco fuori dalla capitale Tunisi. Il gesto di Aissaoui ha immediatamente ricordato una data ben precisa nell’immaginario collettivo dei tunisini, il 17 dicembre 2010. Giorno dell’immolazione di Mohamed Bouazizi che diede poi vita alla Rivoluzione del 2011 e alla cacciata del despota Zine El-Abidine Ben Ali.

Da allora sono passati 12 anni e un faticoso processo di transizione democratica che, al netto della scoperta della libertà di espressione nel paese, non ha portato a un miglioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione, anzi. Soprattutto nei territori come Haffouz, cittadina di poco più di 8mila abitanti nell’entroterra tunisino che si è sollevata contro la polizia dopo la morte del calciatore, c’è stata una progressiva perdita di acquisto da parte dei cittadini, alimentata da una crisi economica pluridecennale e da un tasso di inflazione che da tempo ha superato il 10%. La storia di Nizar Aissaoui si va ad aggiungere ad altri gesti estremi. Oggi in Tunisia darsi fuoco è diventato l’ultimo tentativo per farsi ascoltare dalle autorità e nel paese si contano decine di Bouazizi. La sensazione è che per il prossimo sia solo una questione di tempo.

Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato registrato in avenue Bourguiba, la via principale di Tunisi dove si registrano le principali rivendicazioni da parte della popolazione. La vittima si chiamava Néji Hefiane, aveva 26 anni ed era un ferito di quella Rivoluzione del 2011 che oggi viene sempre di più maledetta. Sentitosi abbandonato dalle istituzioni per delle promesse mai mantenute per avere delle cure alle ferite che aveva riportato all’epoca alla testa, il 6 settembre 2021 decise che non restava altro se non l’immolazione. Originario di Intilaka, quartiere popolare di Tunisi, “è stata l’ingiustizia e la marginalizzazione di cui è stato vittima a portare mio figlio alla morte”, furono all’epoca le dichiarazioni del padre Béji Hefiane.

In Tunisia tuttavia le cattive notizie non finiscono qui. Dopo due mesi di sit in permanente di fronte all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel quartiere Lac 1 di Tunisi, i richiedenti asilo provenienti da paesi come Sierra Leone, Yemen, Camerun e Costa d’Avorio sono stati sgomberati con la forza dalla polizia nella mattinata di mercoledì 12 aprile.

Le rivendicazioni andavano avanti proprio da due mesi non per semplice casualità: il 21 febbraio scorso il presidente della Repubblica Kais Saied ha pronunciato parole dalle tinte profondamente razziste e xenofobe che hanno portato a una serie di violenze contro la comunità subsahariana e, di conseguenza, a un’accelerazione delle partenze verso Lampedusa o alla richiesta di una ricollocazione rapida in un paese terzo. Il risultato è stato il ritorno della repressione della polizia e a una serie di arresti di persone originarie dell’Africa occidentale. A oggi sarebbero decine i fermati.