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di Leonardo Martinelli

La Repubblica, 16 novembre 2023

Sono almeno 1.200 a vivere in un edificio diroccato alle porte della capitale: “L’impressione è che le autorità tunisine aprano e chiudano il rubinetto, rilasciando o intensificando i controlli in mare e sulla costa”. Sulle rive della laguna, Lac 1 è il sogno abortito di una Dubai lontana (una delle tante illusioni infrante a Tunisi). Palazzi moderni, dall’intonaco bianco, già sporco e vecchio, si alternano a rari edifici tecnologici e scintillanti e a terreni ancora da costruire, discariche di plastica colorata. Mogli annoiate di “expat” del Golfo si aggirano in strada tra fiotti di giovani tunisini sottopagati, che lavorano nei call center, concentrati nella zona, a disposizione di clienti scocciati, in linea al telefono dalla Francia.

Poi, dietro un angolo, inatteso, si materializza il relitto di un palazzo enorme mai finito: panni stesi al sole ai piani più alti e, nel giardino pubblico sotto, pentole annerite dal fuoco, dove cuoce pasta col concentrato di pomodoro. Sarebbero almeno 1.200 a vivere qui, tutti uomini e tutti migranti subsahariani, nella puzza di urina e un unico bagno intasato per tutti. In attesa.

Si sono accumulati nell’ultimo mese. Tanti sono sudanesi, in fuga dalla guerra, come Biko, 24 anni: “Sono partito un anno fa da casa mia, facevo il contadino. Sono risalito da Ciad, Niger e Algeria, fino al Marocco. Ma lì, dalla costa mediterranea, è impossibile passare in Spagna. Allora sono venuto in Tunisia. Vorrei lavorare, per mettere da parte i soldi necessari a prendere un barchino verso Lampedusa. Ma qui di lavoro non ce n’è proprio”.

Anche Azuber è sudanese, 22 anni: “Io avevo un po’ di soldi e ci ho provato due volte. Ci vogliono 1500 dinari (450 euro) per partire. Ma in entrambi i casi la Garde nationale tunisina ci ha fermati al largo. Era settembre. La seconda volta i gendarmi mi hanno detto: se ci riprovi, ti portiamo al confine con la Libia, ti abbandoniamo nel deserto. Ora aspetto, tanto a ottobre era tutto bloccato. Ma le ultime sere i “passeur”, che organizzano le trasferte, stanno ritornando. Vengono qui al tramonto a cercare clienti. Forse si ricomincia”.

Dopo un luglio e un agosto da record per gli arrivi a Lampedusa, a ottobre il flusso è stato addirittura più basso rispetto allo stesso mese dell’anno scorso (circa 10mila migranti giunti a Lampedusa da Libia e Tunisia contro 13.500). Ma se qualcuno a Roma (Giorgia Meloni compresa) pensa che Kais Saied, il presidente tunisino, abbia bloccato l’arrivo dei migranti dall’Africa subsahariana, s’illude. Soprattutto il confine con l’Algeria resta poroso, passa chi vuole. E se i migranti non partono, semplicemente si ammassano qui, in attesa. A nord di Sfax, la città più a sud, principale base di partenza per i viaggi della speranza, sarebbero già 15mila ad aspettare. Bivaccano negli oliveti, dove è appena iniziata la raccolta. La tensione è forte con la popolazione locale.

“L’impressione è che le autorità tunisine aprano e chiudano il rubinetto, rilasciando o intensificando i controlli in mare e sulla costa”, osserva il rappresentante di una Ong internazionale, che vuole restare anonimo. Saied ha fatto naufragare il negoziato per il prestito del Fondo monetario internazionale. E si sta arenando pure la trattativa per sbloccare i fondi del memorandum firmato con l’Unione europea a luglio. Intanto la situazione sociale si deteriora sempre di più. I migranti sono l’unico strumento rimasto a Saied per premere su Bruxelles e Roma. Negli ultimi giorni a Lampedusa stanno arrivando di nuovo i barchini.

Nel parco dinanzi all’edificio abbandonato del Lac 1, i migranti si pressano annoiati e arrabbiati. La tensione è forte, anche tra le diverse nazionalità. Sono tutti giovani, a parte Abdul, etiope, che ha 42 anni, ma ne dimostra molti di più: per tutti una sorta di leader, di padre. “Sono partito due anni fa dal Nord dell’Etiopia, a causa della guerra civile nel Tigré. Sono risalito in Sudan, poi in Libia. Ho passato il confine con la Tunisia due mesi fa: a piedi, di notte”. Lui ha ottenuto dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che ha sede proprio al Lac 1, la tessera di rifugiato. Così gli danno circa 100 euro mensili (ma solo per quattro mesi).

“Siamo una minoranza qui ad averla ottenuta. Compriamo da mangiare, aiutiamo gli altri. Qualche tunisino, solidale, ci porta del cibo”. Le Ong non sono autorizzate a venire sul posto (e quelle tunisine non hanno i mezzi per aiutare). Un ragazzo sudanese ha una brutta infezione al piede, dorme febbricitante per terra. Abdul si corica la sera su un telo di plastica, infagottato in un giaccone di lana. Ricorda che “in Libia ti mettono in carcere e poi t’impongono di chiedere soldi alla tua famiglia di origine. Se il denaro non arriva, ti torturano. In Tunisia non c’è questo rischio. Ma una pattuglia ti può prendere per strada e portarti alla frontiera con la Libia e spingerti di là. È già successo di recente a persone che conoscevo”.

Iniziarono a costruire Lac 1, con fondi sauditi, tra gli anni Ottanta e Novanta: doveva portare la Tunisia nell’era della mondializzazione. Allora gli investimenti stranieri arrivavano ancora. Una passerella sconnessa si allunga sulla laguna, dove Fabrice, 33 anni, del Camerun, prende fiato, lontano dalla bolgia degli altri. “Vivevo a Orano, in Algeria. Ci sono rimasto due anni. Lì ci sono tanti cantieri, facevo il muratore. Uno dei miei colleghi e amici, Ange, del Camerun come me, mi ha convinto a venire a Tunisi per partire in Europa. È stato un errore. Ho tentato il viaggio a Lampedusa, ma mi hanno fermato in mare. E qui non ci sono possibilità di lavoro come in Algeria”. Pure Ange ci ha provato. Ma non se ne hanno più notizie. “La sua barca è scomparsa nel Mediterraneo”.