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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 5 luglio 2023

Arresti di massa e deportatzioni. Dopo la morte di un tunisino, case bruciate e pietre contro i subsahariani. Una questione di tempo. Le immagini che arrivano da Sfax non lasciano spazio ad altre interpretazioni. Case incendiate, aggressioni a colpi di pietre e bastoni e un morto. Il bilancio dell’ultima notte nella città che più di tutte in Tunisia rappresenta la precarietà del paese è disastroso. Erano mesi, se non anni, che le tensioni tra la popolazione locale e la comunità subsahariana avevano raggiunto un livello mai visto prima. Ora la morte di un cittadino tunisino di 38 anni rappresenta il superamento di un limite che aumenta ogni giorno.

Per tre notti consecutive Sfax, seconda città del piccolo Stato nordafricano e uno dei primi polmoni industriali, ha faticato a dormire. I social network e non solo si sono riempiti di video che testimoniano violenze di ogni tipo: abitazioni date al rogo per la sola presenza di cittadini di origine subsahariana; persone rinchiuse in casa che inquadrano in diretta tentativi di assalto e tentativi spontanei di evacuare un parco dove hanno trovato rifugio quasi 200 cittadini sudanesi a colpi di bastoni e pugni. Il bilancio dei feriti e dei danni non è ancora dato sapersi ma sono decine le segnalazioni da parte di una fetta della popolazione che non riesce più a darsi risposte a quanto sta succedendo, mentre il ministero dell’Interno ha annunciato di avere disposto ulteriori misure di sicurezza nel governatorato di Sfax.

All’interno di un contesto estremamente precario e confuso, nella serata di lunedì un cittadino tunisino di 38 anni è morto dopo essere stato accoltellato da una persona di origine subsahariana nella città di Sakiet Eddaïer, alle porte della città, poco lontano dalla spiaggia di Sidi Mansour, uno dei luoghi da dove partono le imbarcazioni in direzione di Lampedusa. Le autorità locali hanno comunicato di avere aperto un’indagine e annunciato l’arresto di tre persone implicate a vario titolo nell’omicidio.

I fatti arrivano a margine della manifestazione del 25 giugno scorso per dire basta all’aumento dei subsahariani in città. Una presenza che si sente e si vede anche solo percorrendo di giorno il centro di Sfax e che di notte trova rifugio nei quartieri più popolari, dove la rabbia aumenta con l’aggravarsi delle condizioni economiche e sociali. Da qui si parte per capire cosa sta succedendo in questi giorni in Tunisia. Il deterioramento del potere di acquisto della fascia più popolare della comunità tunisina ha inciso pesantemente sulla percezione degli stranieri presenti nel paese. Il Forum tunisino per i diritti economici e sociali ha stimato in 21mila i subsahariani che a vario titolo sono presenti sul suolo tunisino. Stando solamente alle statistiche sugli arrivi in Italia e sulle intercettazioni da parte della Guardia costiera di Tunisi, si capisce che si tratta di un dato troppo al ribasso: da inizio anno i cittadini di origine straniera sbarcati a Lampedusa sono stati più di 30 mila, quelli intercettati più di 25 mila. Dati che hanno alimentato il senso di insicurezza dei tunisini, su cui hanno inciso alcune fake news come i subsahariani portatori di varie malattie.

Archiviato il lato più evidente della precarietà quotidiana, ce n’è un altro che minaccia di essere ancora più duro. Si tratta della ricostruzione da parte della società civile tunisina di alcuni respingimenti forzati verso la Libia, dove tante cose succedono senza che possano essere verificate.

La mattina del 2 luglio un gruppo di venti migranti e richiedenti asilo è stato espulso verso il confine a sud della Tunisia da militari e agenti delle forze di sicurezza: 6 donne (di cui due incinta e prossime al parto), una minore di 16 anni e 13 uomini. Numeri che nascondono storie di vario genere ma che non si possono raccontare in quanto i telefoni sono stati sequestrati e rotti. Arrestati l’1 luglio in un’abitazione a 35 chilometri da Sfax insieme ad altre 28 persone, la polizia avrebbe poi diviso il gruppo in due. Una vicenda che richiama da vicino quanto già successo nell’agosto del 2019 con diversi casi di respingimenti collettivi verso l’Algeria e la Libia.

C’è di più. Nella giornata di ieri sono aumentate le segnalazioni di altri arresti di massa, almeno 200 persone, in alcune zone di Sfax dopo gli episodi della notte. Fatti salire su alcuni bus in direzione di Ben Gardane, al confine sud, più di cento sarebbero state trattenute in un posto di polizia nella località di Skhira, al centro della Tunisia tra Sfax e Gabes. Il manifesto ha potuto verificare la localizzazione dei fermati e ha parlato con un cittadino di origine ivoriana prima che il suo telefono risultasse irraggiungibile: “Al momento siamo più di 100 persone che sono state trattenute”, è il racconto. “Abitavamo tutte nello stesso stabilimento a Sfax, nella notte alcuni tunisini hanno incendiato le nostre abitazioni e cominciato a lanciare pietre. Abbiamo chiamato la polizia e ci hanno fatto salire su dei bus verso la Libia. Da questa mattina non abbiamo acqua né cibo. Siamo fermi a Skhira sorvegliati dalla polizia. Non ci hanno detto niente. Ci sono anche dei bambini. So che altre 120 persone si trovano a Ben Gardane”.

In un momento in cui le trattative tra Unione europea e Tunisia si fanno sempre più fitte per aiutare il piccolo Stato nordafricano ad aumentare il controllo sulle sue frontiere marittime e terrestri, nell’immaginario della società civile tunisina risuonano ancora le parole dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulla Tunisia come paese sicuro, pronunciate nel 2019. Da allora sono passati quattro anni, il piccolo Stato nordafricano sta fallendo economicamente e le violenze aumentano. Resta una domanda che gli attori sociali attivi nel paese continuano a farsi: di che paese sicuro si tratta?