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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 2 luglio 2023

Prigioniera della crisi economica, la città tunisina è sospesa: al cimitero di Lajmi dà una tomba ai migranti morti nel Mediterraneo; nelle strade isola i subsahariani in un limbo senza soluzioni. E aumentano gli attacchi xenofobi accesi dal presidente Saied. 4216. 4197. Yoroba Sandrine. 4201. Distante pochi chilometri dal centro di Sfax, nascosto lungo una delle strade che porta fuori dalla città, si trova il cimitero musulmano di Lajmi. Qui prende forma tutta la drammaticità legata alle partenze verso la sponda nord del Mediterraneo dalla Tunisia delle ultime settimane. Molte volte si racconta di come i numeri non riescano a spiegare a fondo le migrazioni. A Lajmi, al contrario, i numeri sono l’elemento più evidente di un cambiamento radicale.

A inizio anno decine di tombe senza lapide, messe assieme con un po’ di mattoni e del cemento con inciso sopra una semplice cifra, accoglievano le vittime di naufragio a cui non è stato possibile dare un nome. Oggi quelle tombe sono diventate centinaia, almeno il doppio rispetto a qualche settimana prima del duro discorso del presidente della Repubblica Kais Saied contro la comunità subsahariana presente nel paese e, soprattutto, a Sfax.

Numeri come 4216, 4197 e 4201 sono raramente intervallati da una lapide con un nome. Come Yoroba Galo Sandrine, della quale si sanno solo l’anno di nascita e di morte: 1985 e 24 dicembre 2020, quando in un naufragio al largo delle coste tunisine morirono 20 persone. Si salvarono in cinque.

Sfax non è solo la città che si prende carico del lato più duro del mare. È anche il luogo dove si riempiono di significato le oltre 40mila partenze da gennaio 2023 e si registrano le conseguenze più dirette di parole come “esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica del paese, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”, quelle pronunciate da Saied il 21 febbraio scorso.

La seconda città della Tunisia continua a essere uno dei punti più strategici per la traversata lungo il Mediterraneo. Nel frattempo, mentre il piccolo Stato nordafricano sta per chiudere questa settimana un memorandum d’intesa con l’Unione europea per incentivare gli investimenti e il rafforzamento delle sue frontiere esterne, il paese continua a (non) accogliere la comunità subsahariana, costretta a vivere in condizioni estremamente precarie.

“Benvenuti al Green hotel”, è il saluto di alcuni ragazzi sudanesi all’ingresso di un piccolo parco accanto alla medina di Sfax, in pieno centro. Da metà aprile, quando la guerra civile è esplosa a Khartoum, circa duecento persone - quasi tutti uomini - hanno trovato rifugio tra gli alberi di una delle poche aree verdi della città dopo avere passato le prigioni della Libia. I giorni scorrono lenti. Più veloce invece è la sensazione di essere bloccati in un limbo senza soluzioni. L’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) e altre organizzazioni internazionali o della società civile non sono mai pervenute tra le pile di rifiuti che si sono accumulati col passare delle settimane.

Da qui è partita la manifestazione dello scorso 25 giugno convocata da un gruppo locale per “proteggere Sfax dalle minacce contro la sicurezza dei suoi abitanti”. Un centinaio di persone ha deciso di agire direttamente contro una situazione considerata ormai intollerabile. Talmente intollerabile che a fine maggio un giovane originario del Benin è stato accoltellato a morte da un gruppo di giovani tunisini in uno dei quartieri popolari della città. Il segno più evidente di un momento arrivato (forse) a un punto di non ritorno.

L’aumento degli attacchi di stampo xenofobo da parte di una fetta della popolazione tunisina è sicuramente alimentato dall’insicurezza costante che ormai la Tunisia offre alla sua popolazione: un rating di CCC-, un’inflazione galoppante e un tasso di disoccupazione costante al di sopra del 15% sono i dati più evidenti di una precarietà che si sente molto di più a livello quotidiano quando il potere di acquisto diminuisce e i prezzi al mercato aumentano.

Attraversata la strada che divide il Green hotel e la medina dal centro della città, l’impatto con la realtà diventa ancora più violento. “Basta farsi un giro qui intorno per trovare tutta l’Africa”, è il benvenuto di un gruppo di ragazzi originari del Burkina Faso, arrivati a Sfax da qualche giorno. Ed è effettivamente così: nell’arco di poche centinaia di metri si intrecciano storie e racconti di ogni tipo, mentre il tempo diventa qualcosa di relativo rispetto a chi pensa che “gli africani” (espressione usata in senso dispregiativo per definire la comunità subsahariana e non solo, ndr) siano arrivati in Tunisia solo per partire in direzione dell’Italia.

C’è chi a Sfax ha trovato un lavoro considerato stabile e che non ha mai pensato di lasciare il piccolo Stato nordafricano, almeno fino al discorso del presidente Saied di febbraio. C’è chi ha mollato tutto nel 2014 per poi ritrovarsi, in ordine, in Marocco, Algeria e in una prigione della Libia. C’è chi non ha il tempo di parlare con i giornalisti “perché mi hanno appena cacciata di casa e devo capire dove andare questa notte”. C’è chi è costretto, come alcune donne, a vendere spezie a un dinaro per poi sottolineare che con i media non discutono “perché poi arriva la polizia e ci cacciano”.

Ci sono storie come quella di Duplex Yoko Nenkam, 25enne originario di un piccolo villaggio del Camerun, che riassume quel senso collettivo di trovarsi in una prigione a cielo aperto in Tunisia: “Ormai non riesco neanche a più contare le volte che ho provato a partire da quando sono arrivato nel 2020. A febbraio mi hanno cacciato di casa a pietrate e sono scappato nei campi di ulivo qui vicino. Ci sono restato un mese. L’ultima volta che ho provato a partire è stata qualche giorno fa. Dopo qualche ora è arrivata la Guardia costiera tunisina e ci hanno lanciato i gas lacrimogeni addosso. Alcune persone sono ancora in ospedale. Se entro due mesi non arrivo in Europa tornerò in Camerun ma anche lì la situazione è pessima. Cosa devo fare?”.