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di Leonardo Martinelli

La Repubblica, 19 ottobre 2022

Ma c’è anche chi si ribella al business della morte. Qui la bassa marea restituisce i corpi degli immigrati che non ce l’hanno fatta ad arrivare a Lampedusa, distante 160 chilometri. All’orizzonte il mare, piatto e lattiginoso, si confonde con le nuvole bianche del cielo. Ahmed Taktak, 44 anni, salta sulla barca e va a pescare. Qui a Ouled Yaneg, sulla costa di Chergui, l’isola principale delle Kerkennah, lo conoscono tutti. Per anni è stato uno dei migliori “passeur”, gli scafisti diretti a Lampedusa, a poco più di 160 chilometri al largo. “Ho iniziato a pescare da bambino. Ma a 18 anni feci la prima traversata, di notte, con la bussola. Osservavo le stelle e i venti, le nubi, l’umidità per prevedere il tempo. Oggi è così facile: mettono uno smartphone in mano a dei ragazzini per il Gps e guardano le previsioni meteo sui siti tunisini, che comunque spesso non c’azzeccano”.

Ogni tatuaggio delle braccia di Ahmed ricorda una vita: lui ne ha avute tante, pure più di quattro anni di carcere in Italia per spaccio di eroina (“lì sono cambiato, ho studiato e perfino recitato a teatro”: ora declama in italiano i versi di “Antigone”, scrutando le onde). “Da una decina d’anni sono tornato nelle mie isole, faccio di nuovo il pescatore. Mi propongono di partire coi migranti, ma mi rifiuto. Noi lo facevamo con una decina di persone. Oggi riempiono barche inadatte, perfino con un centinaio di poveracci. I naufragi aumentano: lo scafista si fa salvare da qualche amico, con un’altra imbarcazione. Ma gli altri affogano. È diventata una mafia. Io non voglio lucrare sulla morte”.

Il tempo è come sospeso alle Kerkennah, l’atmosfera pesante. Ampie le maree e quella bassa restituisce corpi di vite perdute, portati via dai camion della spazzatura. Sono 14 isole che si allungano verso Lampedusa su una distanza di 40 km. Troppi per essere controllati con cura dalla guardia costiera, che dipende da quella nazionale, la gendarmeria tunisina. “Senza contare che loro spesso chiudono un occhio - sottolinea Abdelhamid Fehri -. Non abbiamo le prove, ma qui nelle isole siamo sicuri che alcuni dei loro elementi siano corrotti dai passeur”.

Fehri è il vecchio saggio delle Kerkennah. Storico e docente all’università di Sfax, è originario del villaggio di El Abassia, dove ha trasformato la sua casa di famiglia in un museo sulle tradizioni dell’arcipelago. E sul suo ecosistema fragile, che per secoli ha funzionato, ai ritmi di una vita dura ma dignitosa. “Oggi la pesca non rende più - ricorda -: i fondali sono stati devastati da quella a strascico”. Senza contare l’inquinamento, “dovuto alla piattaforma che si vede al largo, in prossimità di un giacimento di gas naturale”. La gestisce Perenco, società anglo-francese. Le spugne, un tempo altra ricchezza delle isole, sono praticamente scomparse, a causa delle perdite oleose, troppo frequenti. E da cinque anni imperversa la siccità, conseguenza del riscaldamento climatico: il palmeto che corre al centro dell’isola di Chergui, altra risorsa economica, è esangue.

Al museo di Fehri si spiega come funziona la “charfia”, pesca tradizionale delle Kerkennah, che risale all’epoca punica. Sono labirinti realizzati con le foglie più resistenti della palma, conficcati sui fondali più bassi. Alla fine il pesce si ritrova intrappolato in una sorta di cesta. Lo utilizza anche Ahmed, ma stasera, al tramonto, vi ha trovato appena qualche spigola. Per il resto solo i “granchi Daech”, come li chiamano qui, in riferimento ai terroristi islamisti: arrivati pochi anni fa, forse su un mercantile sbarcato da lontano. “È vorace - spiega il pescatore -. Entra dentro e mangia tutti gli altri pesci”. Insomma, alla fine non resta che il business dei clandestini. “Quello dei passeur era un mondo artigianale, ora funziona a livello industriale - sottolinea Fehri -. Prima li guardavano con disprezzo: erano dei delinquenti.

Oggi il fenomeno si è banalizzato: nel contesto della crisi economica attuale in Tunisia, appaiono come ragazzi che hanno saputo arrangiarsi”. E senza scrupoli: riempiono sempre più le loro carrette del mare, ogni passeggero paga quasi 2mila euro. Al largo di queste coste d’estate la Guardia nazionale ha intercettato più di 17mila migranti, quasi il doppio dell’estate 2021. Altri sono arrivati in Italia. Quanti se ne è portati via il mare? Al vertice delle organizzazioni ci sono giovani delle isole (“Andavano in bicicletta, poi un giorno arrivano con il Bmw: si sa chi sono”, osserva Ahmed). Spesso ex pescatori. Altri ex pescatori (pagati briciole) guidano le barche.

A El Kraten, nell’estremità nord-ovest dell’isola di Chergui, vivono invece i pescatori più agguerriti contro gli scafisti. Sono i puri e duri delle isole: hanno creato un’Associazione per lo sviluppo sostenibile della loro terra. La dirige Ahmed Souissi, che è un impiegato pubblico, “ma il mio stipendio è troppo basso, devo andare anche a pesca”. Al porto di Kraten, alcuni graffiti variopinti ritraggono i famosi e succulenti polpi delle Kerkennah. Fra poco inizia la stagione, “ma in genere è preannunciata da piccoli polipi, che quest’anno non ci sono”. Souissi è preoccupato, non rassegnato ma stanco, teme che nuovi problemi spingano altri a scendere a patti con i passeur. “Loro hanno bisogno di barche. E ai pescatori propongono di comprargliele al doppio del prezzo.

Questi dichiarano alla polizia che l’imbarcazione gliel’hanno rubata”. Boulbaba Souissi, amico di Ahmed, va a pesca ma ha creato anche un club di apnea. “Ci sto provando, ma il turismo in Tunisia è in crisi”. Nelle Kerkennah sui social s’informano sulla politica italiana: la conoscono meglio di quella tunisina. Boulbaba sa del progetto del “blocco navale” di Giorgia Meloni. “Gli italiani cosa faranno - si chiede -, navigheranno con le navi militari incontro alle piccole imbarcazioni piene di migranti? Le faranno affondare? Questa signora se la vedrà con la sua coscienza”. Per Ahmed Taktak, “è impossibile tirare su un muro di Berlino in mare. I pescatori delle Kerkennah passeranno comunque”.

Scende la sera. Ma c’è la luna piena. Sul tratto di mare fra Ennajet e Alataya, all’estremità nord-est di Chergui, s’intravedono ombre fra le barche in secca. I furgoni della Guardia nazionale passano a terra, non vedono nulla. Da qui, un luogo isolato, scivolano via le imbarcazioni coi clandestini. Ad Alataya circolano molte donne velate e vestite di nero da capo ai piedi. Il villaggio è in mano a Ennahdha, il partito islamico. Alle Kerkennah in tanti sospettano che ad Alataya “coprano” i passeur.

Sono le 22 ormai. A una ventina di km a sud da lì, a Ouled Yaneg, Mohamed smonta al bar dove fa il cameriere. Ha 58 anni ed è uno dei pescatori più abili della zona, una persona mite e rispettata. Di pesce ce n’è sempre meno e da un anno è costretto a lavorare nel bar e a pescare la notte fino alle sei di mattina. Un mese fa, però, gli hanno rubato la barca. “Ho pensato che l’avesse portata via il vento”. No, l’aveva rubata un ragazzo di Ouled per andare a Lampedusa con tre suoi amici. Hanno già chiamato, sono in giro per l’Italia. “L’avevo costruita nel 1986”, racconta. Non ha i soldi per comprarne una nuiva. Nel villaggio sono scioccati: come siamo potuti arrivare a tanto? Rubare l’imbarcazione al generoso e bravo Mohamed? I genitori del ragazzo manco gli hanno chiesto scusa. Lui si commuove. Ma trova solo la forza di dire: “Che Dio li perdoni tutti”.