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di Gabriella Colarusso

La Repubblica, 1 giugno 2023

“Non ho saputo dare una linea politica degna della mia gente”, scrive dalla prigione dov’è detenuto da sette anni per “propaganda terroristica” in un processo che la Corte europea dei diritti umani ha definito ingiusto. La scelta dopo la sconfitta dell’opposizione alle elezioni. Aveva scommesso sull’alleanza non ufficiale con i Repubblicani per portare la Turchia fuori dall’era Erdogan, e dare ai curdi una prospettiva di pace, anche subendo la retorica nazionalista che il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, ha usato nelle ultime settimane di campagna. Ora la sconfitta alle elezioni spinge il leader curdo più importante della Turchia, Selahattin Demirtas, a fare un passo indietro.

“Mentre continuo a lottare per la resistenza come fanno i miei compagni di prigione, in questo momento abbandono la politica attiva”, ha annunciato con un messaggio sui social dal carcere dov’è detenuto da sette anni, accusato di “propaganda terroristica” in un processo che la Corte europea dei diritti umani ha definito ingiusto e politicamente motivato, chiedendone più volte la liberazione. “Mi scuso sinceramente per non essere stato in grado di portare avanti una politica degna della nostra gente”.

I successi politici, poi l’arresto - Quando irruppè sulla scena politica turca Demirtas aveva poco più di 40 anni, era il 2014. Avvocato, padre di due figli, si era occupato a lungo di diritti umani e riuscì a portare il neonato Partito Democratico dei Popoli, il pro curdo Hdp, a un risultato storico, la terza forza del Parlamento. “L’Obama curdo”, lo definirono i giornali, per le sue capacità oratorie e il carisma. Nel 2014, candidato alla presidenza contro Erdogan, ottenne il 13%, un risultato che nessun politico curdo in Turchia aveva mai raggiunto. Aveva allargato la base del partito, convincendo anche elettori di sinistra.

Nel 2016 fu arrestato, ma ha continuato a fare attività politica dal carcere: scrivendo libri, prendendo posizione attraverso messaggi che consegnava ai suoi avvocati e indicando la linea al partito, che nel frattempo aveva nominato due nuovi co-presidenti, un uomo e una donna, come prevedono le regole di parità di genere che i curdi applicano anche alle amministrazioni locali in cui governano. Alle elezioni ha deciso di sostenere, seppur non in una alleanza formale, il leader del Chp, Kilicdaroglu, chiedendo ai suoi di votarlo. Ha funzionato solo in parte: l’affluenza al voto nell’Est curdo, al ballottaggio, è stata decisamente più bassa del primo turno. Ha pesato la campagna nazionalista di Kilicdaroglu: molti hanno accusato Demirtas di non essere più in sintonia con la realtà della minoranza curda nel Paese, esposta ad attacchi crescenti. E lui ha preso atto della sconfitta, decidendo di fare un passo indietro.

Il passo indietro - Le motivazioni potrebbero essere anche, in parte, personali, secondo diversi osservatori. Prima del voto i suoi legali erano stati di nuovo messi nel mirino. La sera della vittoria, in un comizio davanti a migliaia di persone, Erdogan ha ribadito che fin quando ci sarà lui al potere Demirtas “non uscirà mai dal carcere” mentre la folla urlava: “Pena di morte per Selo!”, il diminutivo affettuoso con cui lo chiamano i curdi. Farsi da parte ora è anche un modo per proteggere se stesso e la sua famiglia. Erdogan ha puntato tutta la sua campagna sull’accusa a Kilicdaroglu di aver fatto patti con “i terroristi” giocando sul fatto che il fratello di Demirtas, Nurettin, è un membro del Pkk, il partito dei lavoratori curdi considerato organizzazione terroristica da Turchia, Usa ed Europa.

La riconferma di Erdogan alla presidenza della Turchia dopo 21 anni ininterrotti al potere è stato un terremoto per l’opposizione che per la prima volta era riuscita ad andare alle urne compatta, sperando nella grande svolta. La sconfitta cambia il quadro. Kilicdaroglu ha scelto di non dimettersi dalla presidenza del Chp, ma la sua carriera politica sembra ormai al capolinea. Mentre sul sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, la vera personalità politica del Chp, considerato da tutti il rivale più forte per Erdogan, pende la scure di una possibile condanna con bando dall’attività politica.