di Tiziana Maiolo
Il Dubbio, 30 luglio 2024
Due uomini travolti dalla tragedia dei figli assassini, costretti a una paternità sacrificale e a subire gli appetiti e il giudizio implacabile dell’opinione pubblica. Nicola Turetta come Francesco Di Nardo. Due padri colpiti da una tragedia, i quali si ritrovano ad avere tra le mani e nella propria vita un figlio o una figlia assassini e diventano a loro volta vittime del proprio amore incondizionato per coloro che hanno contribuito a far venire al mondo e che li conduce, forse loro malgrado, a una sorta di paternità sacrificale incompresa e dileggiata. Era successo oltre vent’anni fa a Francesco Di Nardo, un ingegnere di Novi Ligure, Piemonte ricco e tranquillo, che conduceva una vita di normalità in una villetta con la moglie e due figli, Erika di 16 anni e Gianluca di 11. Poi successe che la ragazzina fu presa da impazzimento, gelosia per il fratellino o chissà che altro, e con la complicità del fidanzatino coetaneo Omar sterminò la mamma e il piccolo Gianluca con 96 coltellate. Voleva uccidere anche il padre, ma questa era rimasta un’intenzione. Ma sarà proprio lui poi la salvezza della ragazza. Giorno dopo giorno è rimasto con la figlia assassina, non mancando mai una visita carceraria e chiedendosi sempre in che cosa lui stesso avesse sbagliato.
È quello che oggi rimprovera lo psicanalista Paolo Crepet a Nicola Turetta, l’altro padre di assassino, e qui siamo nel Veneto, altra regione del nord super sviluppata e benestante. Se si parla di responsabilità, quella riguarda anche i genitori, certo. E forse, in quel primo incontro in carcere, dopo che Filippo era stato arrestato per aver ucciso, anche lui con un numero sterminato di coltellate, l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ci si sarebbe aspettato che emergesse anche la responsabilità incolpevole dei genitori, insieme a quella del ragazzo assassino. E forse c’è stata, non sappiamo. Perché conosciamo solo, e forse è anche troppo nella sua sostanziale inutilità, quello che qualcuno senz’anima ha voluto fosse verbalizzato benché superfluo per l’inchiesta, e poi un altro senz’anima ha segnalato ai giornalisti e poi quelli, in particolare quelli senz’anima, hanno rotto le uova della compassione e hanno fatto la frittata della gogna. Che non si nega a nessuno, basta che sia altro da sé e dai propri cari. Poi quando ti capita, e magari sei un segretario di partito, strilli e diventi garantista.
Nicola Turetta in quella breve frase consolatoria per il figlio davanti al quale provava imbarazzo angosciante perché, come sta dicendo oggi, “un po’ è tuo figlio e un po’ non lo riconosci più”, ha buttato fuori dal petto una serie di concetti raffazzonati e tutti sbagliati. La più tremenda è “hai avuto un momento di debolezza”. Perché non è vero e sono lì a dimostrarlo due anni di messaggini a Giulia, persecutori e assillanti fino alla patologia. Oltre alla programmazione e premeditazione, su cui è inutile insistere perché sarà oggetto di battaglia in aula, quando in settembre comincerà il processo. Ma si deve anche capire, Crepet ci perdonerà, che questi due genitori, dopo che la gran cassa mediatica era stata tutta a voce altissima e scritta con le maiuscole, tanto che Giulia è diventata un simbolo del femminicidio, un po’ come Tortora per la malagiustizia, si sono trovati davanti un ragazzino impaurito per l’enormità dei suoi gesti. E hanno cercato le parole per confortarlo. Non c’era l’assassino davanti a loro in quel momento, ma il loro bambino che avevano allevato a cresciuto. E hanno cercato di proteggerlo. Temevo per il suo suicidio, ha detto ieri suo padre in un’intervista al Corriere. E l’immagine di Giulia è rimasta inevitabilmente sfuocata, sullo sfondo. Certo, frase sbagliatissima, da darsi pugni sulla testa, come infatti Nicola sta facendo. Ma la sua è una responsabilità senza colpa. È padre, prima che genitore di assassino. Davanti a quel figlio che improvvisamente a causa dell’enormità dei suoi gesti è diventato una figura enorme, i genitori finiscono per sentirsi piccini. Infatti il padre annaspa, dice frasi apparentemente senza senso, o banalmente sbagliate. Non sei un mafioso, figlio mio. Sei un femminicida e come te ce ne sono tanti altri. Lo sforzo di riportare il figlio lungo binari di normalità, quella tremenda contro le donne, ma anche quella della laurea, della vita che riprende.
Ha senso che questa persona perbene, che non era preparata a questa svolta della vita, che vuol proteggere dalla tragedia un altro figlio incolpevole, sia stata costretta a umiliarsi pubblicamente, a chiedere scusa, a inginocchiarsi sui ceci, a esibirsi in faticosi autodafé, davanti al più crudele dei tribunali del popolo? No, non ha senso alcuno. Chi sono io, per giudicare, ha detto una volta, all’inizio del suo pontificato, papa Francesco. Ecco, chi siamo noi? La parola “responsabilità”, se vale per Nicola Turetta, come già per Francesco Di Nardo, vale anche per tutti noi. E soprattutto per noi giornalisti, troppo spesso complici dei più schifosi tribunali di piazza. Una volta di più, nei giorni scorsi, come sempre. Abbassiamolo un po’, quel ditino sempre alzato.