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di Paolo Giordano

Corriere della Sera, 4 novembre 2023

“Ciascun attore di entrambi gli scontri sembra ancora alla ricerca di riconoscimento da parte del mondo fuori”. L’editoriale di Paolo Giordano

Ucraina e Medio Oriente: due conflitti e un labirinto.

In alcune città dell’Est Ucraina capita di vedere, accanto alle fermate degli autobus, dei lunghi blocchi di cemento, austeri, senza ingressi né uscite evidenti, simili ad asteroidi precipitati. Sono i bunker urbani che gli israeliani hanno ispirato alla popolazione ucraina per difendersi dai bombardamenti russi. In città come Nikopol, dove a lungo è mancata l’acqua, i bunker sono ormai diventati degli orinatoi, ma a volte servono ancora. La primavera scorsa, durante una visita di stato in Israele, la vicepresidente del Parlamento ucraino ha dichiarato: “Il bisogno costante di adattarsi a vivere e lavorare in condizioni di pericolo è quel che unisce l’Ucraina e Israele”. Era vero prima del 7 ottobre: oggi li unisce anche l’essere, entrambe, nazioni in guerra.

Accostare le due crisi in corso offre probabilmente più rischi che benefici. Può risultare pretestuoso, se non addirittura indecente. Ma è pur vero che i conflitti si sono sovrapposti e competono fra loro per la nostra attenzione, nonché per il nostro sempre più limitato cordoglio. Nel momento in cui scrivo, la Russia ha appena rilanciato l’allarme di un’imminente catastrofe nucleare, dopo l’abbattimento di alcuni droni ucraini nel cielo sopra Zaporizhzhia. Un mese fa una notizia del genere si sarebbe guadagnata la prima posizione sulle homepage internazionali, mentre adesso - se c’è - compare in quarta o quinta posizione, dopo gli aggiornamenti (pochi) in arrivo da Gaza e più specificamente dal campo profughi di Jabalia. Le guerre sono, almeno per noi qui, soprattutto la percezione di prossimità o di lontananza che ne abbiamo in ogni istante. Nei nostri cuori, e nei nostri feed, sembra esserci spazio solo per una alla volta. Almeno fino a quando i legami geopolitici fra i due conflitti resteranno nell’ambito delle congetture, può quindi risultate utile tracciare dei collegamenti anche imperfetti fra l’Ucraina e il Medio Oriente. È quello che ha cercato di fare Biden, insistendo affinché gli aiuti economici statunitensi per Israele e l’Ucraina venissero stanziati in un unico pacchetto, cosciente del fatto che “scorporare” l’Ucraina significa, in questo momento, mollare un po’ la presa sulla sua causa, lasciarla scivolare nell’oblio. Cercare in noi una continuità fra i conflitti ha dunque un valore politico esplicito.

La guerra in Medio Oriente prosegue d’altra parte alcuni percorsi inaugurati dall’invasione dell’Ucraina. Uno fra i più inquietanti è la marginalizzazione sistematica degli arbitri internazionali. Se l’Ucraina ha mostrato l’inefficacia delle Nazioni Unite, inchiodate al diritto di veto dell’aggressore, la guerra in Medio Oriente sta portando questa consapevolezza un passo oltre, verso una squalifica vera e propria. Il rappresentante di Israele ha commentato così la risoluzione votata dall’Assemblea Generale, che non conteneva una condanna esplicita di Hamas e dell’attacco del 7 ottobre: “Le Nazioni Unite non hanno più un briciolo di legittimità o di rilevanza”. Dopo aver accusato gli altri rappresentanti di continuare a diffondere notizie false sul bombardamento dell’ospedale, ha concluso con parole lapidarie: “Shame on you”, vergognatevi (in un capolavoro di parossismo e sfacciataggine, il delegato della Federazione Russa ha in seguito condannato “fermamente” sia l’attentato terroristico sia “il bombardamento indiscriminato di Gaza”). A ogni modo, la risoluzione non ha portato, a una settimana di distanza, ad alcuna interruzione dei bombardamenti né all’apertura di corridoi umanitari né all’ingresso massiccio di aiuti a Gaza. È rimasta simbolica, mentre Israele ha proseguito la sua azione pianificata come se non.

E tuttavia, pur in questo indebolimento degli organi di mediazione, ciascun attore di entrambi i conflitti sembra ancora alla ricerca di riconoscimento da parte del mondo fuori. L’Ucraina ha insistito fin dall’inizio sulla necessità di definire l’aggressione russa un atto terroristico. L’hashtag #RussiaIsATerroristState circola in rete fin dalle prime settimane e a Kiev è stampato sulle magliette. Similmente, il riconoscimento della strage del 7 ottobre come attentato terroristico (e non azione di resistenza, non guerriglia, non fiotto di esasperazione storica) è uno dei nodi principali del dibattito in corso. Un mese più tardi, i sostenitori della causa palestinese chiedono invece che l’azione militare di Israele nella Striscia venga classificata come “genocidio”. Nel nuovo ordine mondiale sovranista, dove i governi rispondono per lo più alla rabbia dei propri cittadini e derogano facilmente alle richieste della comunità internazionale, tutti sono ancora alla ricerca di approvazione. Non è per noi facile capire se si tratti di un residuo del secolo scorso, di un gesto abitudinario destinato a scomparire, o se lo sguardo della comunità globale conti ancora qualcosa. Ma è indubbio che la sequenza Ucraina-Israele è quanto di più simile abbiamo visto finora alla conclusione - al fallimento - del progetto di pace del secondo dopoguerra.

La discontinuità principale fra i due conflitti riguarda le morti. E la possibilità o meno, come loro conseguenza, di arrivare a una visione di sintesi. Il carattere delle morti, per quanto sia odioso dirlo, ha una rilevanza enorme in guerra. Siamo autorizzati, per esempio, a non occuparci dei morti russi (o dei miliziani di Hamas), a non contarli nemmeno, perfino a disumanizzarli. Le offensive brutali e continue sulla popolazione ucraina hanno reso la verità sull’aggressione russa univoca, semplicissima fin dal principio, a prescindere dalle capziosità di alcuni. Il caso di Israele-Palestina è diverso. Se non lo era il 7 ottobre, lo è adesso, per il semplice fatto che i civili muoiono da entrambe le parti. Una strage di giovani a una festa, di persone prelevate nelle loro case - tra cui bambini - trucidate, violentate e rapite, ha un peso specifico altissimo, non riscattabile. Ma da un certo punto in avanti inizia a pesare anche la quantità di morti. Le circa novemila vittime dichiarate dalle autorità palestinesi - non verificabili e che per noi non hanno volto né individualità perché l’informazione internazionale a Gaza è accecata -, quei novemila tra cui una miriade di bambini sono un numero che supera ogni nozione plausibile di “collateralità”. Come la superano le condizioni nelle quali sono precipitati a Gaza i sopravviventi. Su questo non possiamo autoingannarci.

Non a caso da diversi giorni c’è stato uno slittamento naturale del linguaggio: se subito dopo il 7 ottobre si parlava della situazione “in Israele”, ora è molto più comune sentir dire “a Gaza”. Con un certo imbarazzo, per tenere la storia unita, io preferisco usare “in Medio Oriente”, ma so che l’epicentro morale si sta spostando inesorabilmente là dove si ammassano le morti civili. Se la narrazione ufficiale della risposta legittima regge ancora, è solo per mancanza di testimonianze che ci risultino famigliari e quindi attendibili. Il blackout mediatico sulla Russia è a malapena accettabile, ma quello su Gaza davvero non lo è. Com’è accaduto per l’Ucraina, ogni evidenza di crimine di guerra rappresenta un vincolo ineludibile alla nostra comprensione del conflitto in Medio Oriente. Ma i cortocircuiti da risolvere in questo caso sono molti, probabilmente troppi. Perché è dal popolo più debole, da quello più oppresso, che è stato dato il via alla guerra, nel modo più raccapricciante possibile, mentre la nazione più forte, che ora risponde secondo una logica al contempo lucida e sfrenata, è a sua volta isolata, minacciata, nonché vittima di una violenza storica il cui lascito non potrà mai avere fine. Nella moltitudine di vincoli, almeno per chi vuole provare a tenerli insieme, non è detto che rimanga un percorso che conduce a una via d’uscita. A una risposta finale soddisfacente. Per l’Ucraina una risposta c’è, c’è sempre stata, fin dal primo giorno di invasione su larga scala. Entrando a Gaza, è possibile che la nostra ragione si sia smarrita dentro un labirinto chiuso.