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di Giacomo Gambassi

Avvenire, 4 dicembre 2023

Il freddo e gli attacchi russi sul fronte del Dnepr fanno aumentare i profughi nella capitale: inflazione, lavoro scarso e un sussidio statale di soli 50 euro rendono difficile trovare alloggi. Ha visto morire davanti ai suoi occhi i vicini di casa. “Erano appena rientrati dopo essersi rifugiati all’estero. Un missile russo ha colpito la loro abitazione. Tutta la famiglia è stata uccisa. E non ce l’ho più fatta”. Se n’è andata Liudmyla Hritsenko. Lei con le due figlie: Tetyana di 15 anni e Victoria, 11 mesi, nata durante la guerra. Ha lasciato la campagna intorno a Kryvyi Rih, la città dell’Ucraina meridionale a cinquanta chilometri dal fiume Dnepr lungo cui corre il fronte. “La situazione sta peggiorando. I razzi ti volano sopra la testa. Gli allarmi antiaerei non hanno il tempo di entrare in funzione. Allora eccomi qui”. E Liudmyla è arrivata a Kiev. Da profuga. Senza più nulla. Era fine luglio. “Qui è più sicuro ma è davvero dura vivere”, confida. Come lei, centinaia di rifugiati che giorno dopo giorno continuano ad approdare nella capitale. Una città nella città: il volto più povero e fragile della metropoli. “Chi era giunto all’inizio del conflitto abbandonando gli abitati occupati dall’esercito russo intorno alla città è rientrato a casa, seppur tra mille difficoltà. Ma il flusso degli arrivi non si è mai interrotto: anzi, adesso si sta intensificando soprattutto dalle regioni del sud e dell’est più a ridosso della linea di combattimento e quindi nel mirino costante delle truppe di Mosca”, racconta il direttore della Caritas latina di Kiev, padre Rostyslav Pecheniuk.

Il popolo dei nuovi sfollati, bersaglio dell’escalation militare russa ma anche vittima dell’esplosione della diga di Kakhovka, il “Vajont ucraino” dello scorso giugno che ha costretto decine di migliaia di persone a fuggire. Famiglie, bambini, anziani che “sono stati per mesi negli scantinati”, spiega Julia Klymentyeva, coordinatrice del settore emergenza. E spesso non sanno neppure di avere l’epatite, il Covid, la tubercolosi. “Perché hanno vissuto in condizioni igieniche precarie, magari bevendo acqua avariata o condividendo ambienti angusti”, aggiunge. L’unico modo per ripararsi dalle bombe. Kiev è la salvezza ma anche una disgrazia. “Devi trovare la casa. L’inflazione è alle stelle. Il lavoro non c’è: le fabbriche e le aziende sono in gran parte chiuse. Mancano le medicine. E lo Stato assicura a ciascun profugo di guerra soltanto 2mila grivnia al mese: circa 50 euro. Impossibile sopravvivere, soprattutto in una capitale”, dice padre Pecheniuk.

Con il saio da frate minore francescano, dà il benvenuto a chi bussa alle porte della sede di Caritas-Spes fra i quartieri residenziali lungo la riva sinistra del Dnepr, il fiume che divide in due Kiev. “La gente non ha più molta fiducia nelle autorità pubbliche - spiega il religioso -. Sarebbe un dovere dello Stato accompagnare i rifugiati, ma le risorse vengono drenate per il comparto militare tralasciando l’ambito sociale. E allora in tanti si rivolgono alla Chiesa”. Per il cibo. Per i vestiti. Per i pannolini o il latte in polvere del figlio neonato. Per pagare l’affitto di un appartamento. “Prima della guerra avevamo una vita meravigliosa. C’era la nostra casa. C’era la dacia in campagna. La casa è stata distrutta da un missile e il cottage allagato dopo il disastro della diga. A 38 anni io e mio marito siamo rimasti senza niente”, si sfoga Kateryna Zaveriukha, originaria di Kherson, tre lauree e la figlia Veronica partorita durante l’assedio della città che al di là del fiume è ancora sotto il controllo del Cremlino. “Qui a Kiev - prosegue - non abbiamo nessuno: né parenti, né conoscenti, né amici. Talvolta ho l’impressione che nessuno ci voglia. Per di più con una figlia piccolissima”.

Poi ci sono i disabili. O gli anziani: quelli fuggiti dalle regioni ancora in mano russa o quelli rimasti soli nella capitale perché tutta la famiglia si è trasferita in Europa. “Ogni mese siamo in grado di assistere fino a cinquecento nuclei. Anche se molto dipende dalle risorse”, sottolinea il francescano. “Le donazioni - fa sapere Natalia Shylovska, referente amministrativa della sede - sono calate a fronte di necessità sempre maggiori e di una miseria che cresce. Perciò siamo costretti a limitarci a rispondere ai bisogni più urgenti”.

In due stanze del presidio Caritas è stato ricavato anche un asilo. “Due gruppi di dieci bambini si alternano”, riferisce l’assistente sociale Olena Sapranova-Voronina. E una manciata di gradini portano nel seminterrato trasformato in bunker. “È a disposizione di chiunque in caso di allarme. A cominciare dagli alunni della scuola dall’altro lato della strada”. Nel frigo gli alimenti “salvagente”. Sulle mensole le candele se l’elettricità non c’è. “Il Vangelo della carità - conclude il religioso - ci chiede anche di realizzare un rifugio. E di pregare sia per la pace, sia per l’accoglienza di un popolo ferito e provato”.