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di Carlo Bonini e Fabio Tonacci*

La Repubblica, 20 marzo 2023

Quindici minuti di tempo per mangiare, il gelo, i ritratti dei cosacchi, la mappa dell’Ucraina con la Crimea in evidenza, a rimarcare l’identità di un Paese sovrano e invaso. I vinti hanno la faccia al muro e il capo chino perché è così che vanno le cose nella prigione di guerra. Tengono le mani dietro la schiena come legate da manette immaginarie. Non emettono un fiato. È la regola. Lungo un corridoio scuro tagliato da spifferi gelidi, settantacinque uomini in giubba di panno blu e berretto nero fino a un secondo fa marciavano in fila indiana verso il refettorio e d’un tratto si sono bloccati. Senza che nessuna delle guardie proferisse verbo, si sono rivolti verso la parete e ora fissano il nulla rigato di condensa che sta a dieci centimetri dai loro occhi. Sono i soldati catturati al fronte. Sono russi per lo più ma anche ucraini che combattono contro l’Ucraina. Qualcuno appoggia la fronte per stanchezza, per prostrazione, forse per non pensare. Gli è concesso. Si cammina tra loro provando un senso di disagio. Per quanto respirano piano, al buio non se ne avvertirebbe la presenza. E invece sono qui, reali e innocui, in riga, e sono tanti, cristallizzati eppur vivi, galleria di nuche dei silenti che attendono. Hanno l’ordine di rimanere in questa posizione fino a quando il visitatore, che sia un colonnello, un operatore della Croce Rossa internazionale o come oggi un giornalista, non si sarà allontanato. Viene naturale accelerare il passo per togliersi dall’imbarazzo. Il nostro, il loro.

Le regole di ingaggio, o di come si sta tra detenuti di guerra che raccontano ma non ammettono - Un martedì di inverno. Il campo dove il governo ucraino custodisce i prigionieri di guerra. Palazzine di mattoni sporchi verniciati di bianco, filo spinato, reti, capannoni, una ciminiera, la bandiera gialla e blu afflosciata sul pennone. Ce ne sono diversi di siti così nel Paese, si dice addirittura una cinquantina, ma questo cui Repubblica ha avuto accesso è uno dei più grandi e popolati. “È la prima volta che lasciamo entrare un italiano”, dicono nella garitta all’ingresso. È un vecchio penitenziario di epoca sovietica, costruito nel 1978 e fino al 24 febbraio 2022 usato per i criminali in regime di media sicurezza. Un anno fa l’hanno svuotato e adattato in fretta al nuovo scopo. Due linee di mura di cinta lo separano da un borgo di case povere e dalle altalene di un parco giochi ricoperto dal ghiaccio. Della sua ubicazione si può dire soltanto che è nella parte occidentale dell’Ucraina. Chiedere quanti detenuti vi siano rinchiusi è una perdita di tempo perché dalle sentinelle si riceve sempre la stessa risposta vaga. “Centinaia...”.

Il carcere è gestito dal Gur, il servizio segreto militare di Kiev. Petro Yatsenko, che è il responsabile della comunicazione del Dipartimento trattamento prigionieri di guerra, prima della visita ha elencato le regole d’ingaggio. Servono a evitare l’individuazione del luogo e soprattutto a non violare la Convenzione di Ginevra che tutela i catturati in battaglia anche nei confronti della stampa. “Niente foto al perimetro esterno, niente foto ai dispositivi di sorveglianza, niente foto alle guardie. Intervistare i prigionieri è possibile solo ed esclusivamente con il loro consenso. Abbiamo notizia di uomini che tornati in patria sono stati uccisi dai russi perché avevano parlato coi giornalisti, quindi massima cautela e responsabilità. Alcuni non possono essere avvicinati perché sono sotto inchiesta. Altri non vorranno parlare. Ah, una cosa importante...”. Pausa. “Diranno di non essere mai stati in prima linea, di non aver sparato a nessuno, di essere cuochi o semplici addetti alla logistica...mentono, mentono tutti”.

Il muro degli etmani, dove i russi imparano che l’Ucraina ha una storia. E non è quella che hanno studiato - Si entra che sono da poco passate le dieci di mattina, tra colpi di tosse provocati dai tre gradi sotto zero. Il cielo è plumbeo ma almeno ha smesso di nevicare. “Seguiremo lo stesso percorso che fanno i prigionieri”, annuncia Petro. Una volta alla settimana arrivano bus scortati dall’esercito che scaricano russi a gruppi di cinquanta, a volte cento, con ancora addosso le mimetiche con lo stemma della Federazione e la toppa del battaglione di appartenenza. Ciò che li attende, superato il cancello e prima della cella dove si spogliano delle divise di Mosca, non è affatto casuale. Sulla barriera di calcestruzzo che sovrasta una statua d’angelo con le ali innevate sono riportati i 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani. Poco più avanti, a rimarcare l’ovvio, è appesa la mappa dell’Ucraina. La Crimea è compresa nei confini e dipinta di giallo. Si fanno cinque passi e appare il muro degli etmani.

Fissati alla parete con quattro chiodi ciascuno i ritratti dei capi della comunità militare che abitava questa terra prima che diventasse Unione Sovietica, prima dell’invasione nazista, prima anche delle lotte dei nazionalisti per l’indipendenza. Venti cosacchi di un’altra epoca osservano severi la sfilata dei vinti. Ecco Petro Konashevych-Sahaidachyy, il barbuto, etmano dal 1570 al 1622, ecco il suo successore, l’elegante Dmytro Vyshnevetskyy-Baida dalla veste rossa arabescata che pare un lord inglese, il piglio del combattente nato sulle rive del Dnipro, pettinature estrose da cosacco di Zaporizhzhia, baffi a manubrio. Come quelli dell’ultimo degli etmani, Pavlo Skoropadskyy, dimessosi nel dicembre del 1918 un attimo prima che l’ondata bolscevica spazzasse via tutto. “È il nostro modo per ricordare ai russi che abbiamo una storia nostra, originale e secolare”, mormora Petro. “E che l’Ucraina non è una loro proprietà”. I ritratti sono le uniche macchie calde in un ambiente desolato di colori freddi: il grigio del cemento, l’argento ossidato del filo spinato, il bianco della neve, il blu spento dei giacconi dei prigionieri.

Il wagneriano riluttante, o dell’ex galeotto sieropositivo che sogna un’altra possibilità - I settantacinque uomini sono ancora fermi, con la faccia al muro. Evitare lo sguardo del visitatore, muti, aspettare, è la regola. Disagio. Il corridoio porta al blocco mensa e il turno del pranzo sta per cominciare, ma finché non ce ne andremo staranno così, in piedi uno accanto all’altro, disposti sui gradini di due rampe di scale, agli angoli del passaggio, a sinistra e a destra. È il caso di procedere oltre, i soldati hanno fame e poco tempo per mangiare. Mentre alle nostre spalle si sente il rumore della marcia che riprende, l’attenzione cade su un’ombra che, nella semioscurità, non segue gli altri e non stacca il volto dalla parete. Gli occhi sono chiusi, come se stesse pregando un Dio distratto. “Mi chiamo Timur, sono nato a Perm, ho 37 anni e sono un miliziano della Brigata Wagner. Io non ho ucciso nessuno, non ero in prima linea...”. Certo Timur, siete tutti innocenti qui dentro. “Accetto di parlare con Repubblica. Sì, mi sento libero di farlo. No, nessuno mi ha istruito su cosa dire”.

L’intervista avviene in una stanza chiusa senza guardie ucraine o ufficiali del Gur ad ascoltare. Timur si è tolto il berretto, ha la testa rasata e delle ferite in fase di cicatrizzazione. Al polso destro spuntano due braccialetti, uno bianco e uno rosso. “Quello bianco è perché ho l’epatite. Quello rosso è perché ho l’Hiv. Sa, un tempo facevo il trafficante di cocaina, però da due anni e mezzo sono pulito. Nella Wagner ci sono finito perché mi hanno promesso 194 mila rubli al mese per arruolarmi e mi hanno detto che Putin cancellerà la mia condanna a 10 anni”. Timur è stato catturato il 4 febbraio a Bakhmut (“non mi sono arreso, ho finito le munizioni”) dove assolveva il ruolo conferito dal fondatore della Wagner Evgeny Prigozhin a tutti coloro che ha raccattato nei penitenziari russi: la carne da cannone.

Il wagneriano racconta di un’organizzazione su tre linee: “La prima è il fronte, dove si spara. La terza è dove conserviamo le munizioni”. E la seconda? “È dove operano le squadre che minacciano di morte chi si rifiuta di combattere e vuole tornare a casa”. Le mani sono ruvide, le unghie nere. “Ho capito che sarebbe stato un disastro già durante le due settimane di addestramento nel campo di Lugansk: eravamo 93 galeotti incapaci di comunicare gli uni con gli altri. Attaccare l’Ucraina è stato il più grande errore politico degli ultimi vent’anni. Ma non sono un disertore, la prego lo scriva: non sono un di-ser-to-re...”. Scandisce con premura ed è comprensibile: i disertori restituiti alla Wagner finiscono con la testa avvolta col nastro adesivo su un ceppo di pietra. E il commilitone che alza un martello in aria è l’ultima cosa che vedono.

“Le guardie ucraine ci trattano bene e la cosa mi stupisce. Nessuno mi ha picchiato. La sveglia è alle 6, abbiamo dieci minuti per lavarci il viso e i denti, alle 7.30 la colazione, poi ci mettiamo a lavorare fino al tardo pomeriggio. Abbiamo tre pause per le sigarette, la domenica le pause sono cinque. A volte mettono l’inno nazionale ucraino”, dice il russo Timur. “Spero di essere scambiato presto, in modo che la Wagner possa trovarmi un lavoro tranquillo in un ufficio a Mosca. Ho un figlio di 15 anni e, sì, forse la mia vita ha ancora un futuro”. Cosa si prova ad uccidere in battaglia, Timur? “Ripeto, grazie a Dio non ho sparato a nessuno”.

Il tempo di proprietà dei prigionieri, dove si racconta dei 15 minuti in cui si mangia e si ringrazia - Sono le 12.45 e il primo turno del pranzo è terminato. Sta per cominciare il secondo per i settantacinque uomini, poi seguirà il terzo turno e il quarto, altre squadre di giacconi blu che si trascinano verso la mensa. A parte il riposo serale, il tempo che appartiene ai vinti sono quindici minuti a colazione, quindici a pranzo, quindici a cena. Un quarto d’ora per completare le seguenti operazioni: prendere il vassoio, ricevere due scodelle con la zuppa di patate nella prima e la pasta con un pezzo di carne lessa nella seconda, afferrare due fette di pane e l’acqua, sedersi al tavolo, mangiare in silenzio, alzarsi, ringraziare in coro, tornare in cella. “Le calorie che assumono sono le stesse che offriamo ai nostri soldati col rancio d’ordinanza”, dice chi ha il compito di affondare il mestolo sul fondo del pentolone e riempire le scodelle. Odore di zuppa, mescolato agli afrori di corpi che non si lavano da un po’. Timur si è seduto e scopre la testa rasata, non ce la fa proprio a mangiare col berretto.

I tavoli sono dodici da otto posti, su ognuno una tovaglia di plastica a fiori. Il blocco mensa è un salone con finestre senza sbarre e fasci di tondini d’acciaio accatastati sul fondo. Frotte di uomini mangiano ingobbiti sui vassoi. Il primo tavolo ora ha finito e la danza può cominciare. Otto russi si alzano tutti insieme, su ordine di una guardia. Le mani dietro la schiena. “Siamo grati per questo pasto!”, urlano. Uno dei prigionieri ha raccolto i vassoi e butta i resti nel secchio. Il gruppo si dispone in fila davanti alla porta. Tocca al secondo tavolo, altri otto si alzano. “Siamo grati per questo pasto!”, e si mettono in seconda fila. “Siamo grati per questo pasto!”, si è alzato il terzo tavolo. A otto per volta, si forma un quadrato. Col capo chino e le mani dietro la schiena, al segnale della sentinella tornano in cella. Perché così funziona, nella prigione di guerra.

Una telefonata al mese, o del privilegio minimo che in Russia non hanno - La mensa si affaccia su un campetto da calcio, che potranno utilizzare per un paio d’ore alla settimana a primavera, quando la neve si scioglierà. Accanto alla vasca battesimale in granito di una chiesa cattolica greca (“i russi ci vanno anche se sono ortodossi, un prete viene a dire la messa”) una comitiva di sette giacconi blu privi di guanti sbuffa e carica sabbia su carretti di legno. I depositi del cibo sono lì dietro. Hanno finestre senza vetri che fungono da naturale sistema di conservazione per quintali di pomodori, cetrioli, rape, barbabietole, zucche, sacchi di patate, cipolle, cavoli, carne in scatola, lattine di sardine, farina, zucchero, mais. Nella dispensa pende da un gancio il termometro: sei gradi.

Le camerate contano venti letti ciascuna, sono tiepide e pulite. C’è una stanza con una trentina di sedie davanti a un televisore che la sera, dalle otto alle nove e mezzo, trasmette anche documentari sulla storia ucraina e sulla città di Mariupol. L’antenna prende canali in ucraino e in russo. “Guardano spesso Freedom Tv, nata dopo il 24 febbraio”. E non si capisce se sia realmente una loro volontà oppure se gli sia imposto. Nel locale attiguo, un tavolo con una scacchiera. “I prigionieri lavorano otto ore al giorno e hanno diritto a fare una telefonata al mese”, spiega Petro, l’accompagnatore. “I nostri soldati detenuti in Russia questa possibilità non ce l’hanno”.

È palese l’ansia degli ucraini di mostrarsi trasparenti e archiviare la vergognosa pratica in stile sovietico di trascinare i prigionieri in conferenza stampa costringendoli a cantare un rosario di offese contro Putin e di scuse al popolo invaso. Lo facevano nel primo mese di conflitto. Adesso vogliono apparire diversi anche nel trattamento dei nemici. In questo campo la Croce Rossa ha accesso, mentre le prigioni russe sono blindate alle organizzazioni umanitarie. Non si sa nemmeno dove si trovino. In quali condizioni siano tenuti i catturati ucraini lo si capisce solo al rimpatrio: alcuni arrivano dimagriti anche di venti chili, sulla pelle i segni dell’“accoglienza”, nella mente le torture, le umiliazioni, la privazione. Sinora i servizi segreti militari di Kiev sono riusciti ad ottenere il rilascio di 1.863 soldati tramite scambio.

Lo scorso novembre un dossier dell’Alto commissario Onu per i diritti umani, scritto sulla base di interviste a centinaia di prigionieri, tra cui venti donne, ha denunciato casi di abuso sia da parte russa (la maggior parte) sia da parte ucraina. Con la differenza, però, che Zelensky ha consentito agli emissari delle Nazioni Unite di parlare coi detenuti nei campi di internamento, Putin no. “Noi siamo diversi, stiamo trattando in modo umano e dignitoso chi è venuto a sterminare il nostro popolo. E curiamo i loro feriti”.

Vladyslav il dimenticato, ovvero di come un 21 enne di Donetsk da 10 mesi aspetta uno scambio che non avverrà - Nella stanza numero uno dell’infermeria, da un paio di mattine un venticinquenne biondo non si alza dalla branda. Come l’Ivan Denisovic nel gulag siberiano del romanzo di Solzenicyn, rimugina dentro di sé una scusa per rimanere lì ed evitare di andare al laboratorio a intrecciare le poltrone di vimini, a incollare borse, o, peggio, a spalare la sabbia fuori. Le stampelle che i dottori gli hanno portato le usa poco. Sul comodino ha il Decamerone di Boccaccio in cirillico. “Bel libro. Ma non voglio parlare con voi”. Passare oltre, alla stanza due.

“I prigionieri in media rimangono nel campo un paio di mesi prima di essere scambiati”, spiega Petro. “Il governo di Mosca ci dà la lista di chi rivuole, e abbiamo capito che le loro priorità sono chi ha famiglia con un reddito buono, gli ufficiali e i piloti”. I meno preziosi, per i russi, sono gli ucraini delle autoproclamate repubbliche del Donbass. Sono gli ultimi, li scambieranno un giorno, forse o forse no, ma non gli interessano davvero, se ne dimenticano. Sono ucraini, in fondo.

Come Vladyslav, 21 anni, nato a Donetsk e mobilizzato dai separatisti il giorno stesso dell’invasione. “Rifiutarsi era impossibile”. L’hanno preso a Kharkiv dieci mesi fa e i russi non l’hanno reclamato. “Non gli frega niente di me, sono un soldato semplice, una ruota minuscola del grande ingranaggio. Solo mia madre vuole riportarmi a Donetsk, ma le autorità di là le dicono che gli ucraini lo impediscono. Non so più a chi credere, so solo che mi hanno abbandonato”. Il ragazzo di Donetsk che studiava Economia all’università alza le spalle quando si citano i diritti del prigioniero. “Questo non è un parco giochi, lo so bene. Come vengo trattato dipende dalle guardie: alcune sono più incazzate perché sono ucraino, altre capiscono che se fossero nate nel Donbass potrebbero essere al mio posto. È cominciato tutto nel 2014, quando avevo dodici anni: la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in un mondo che era russo. E infatti mi sono dimenticato di essere nato in Ucraina”. Finché Vladyslav rimane in infermeria non è obbligato a fissare il muro quando passa un estraneo. Vladyslav, che nel campo dei vinti è il più sconfitto.

*Ha collaborato Stanislav Yablonsky