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di Luana de Francisco

La Repubblica, 17 agosto 2024

Mario Pinosa, primo cittadino di Lusevera, scontò 8 giorni per un ritardo nel rinnovo del porto d’armi. L’idea di fare qualcosa a favore dei detenuti e, in particolare, di quelli presenti nel carcere di Udine, era una costante da anni. Per l’esattezza, dal giorno in cui lui stesso si era lasciato alle spalle l’esperienza della detenzione. Era il febbraio del 1980 e durante gli otto giorni trascorsi là dentro, a causa di una banale irregolarità nel porto d’armi, aveva incontrato una solidarietà umana che non solo non si sarebbe mai aspettato, ma che lo aveva aiutato anche e soprattutto a superare lo choc di ritrovarsi a sua volta recluso.

Una nuova vita - Poi, riconquistata la libertà, la vita di Mauro Pinosa, imprenditore di Villanova delle Grotte e, dallo scorso giugno, sindaco di Lusevera, Comune di 600 abitanti della provincia di Udine, aveva ripreso a scorrere nella sua ordinaria quotidianità. L’impegno di sdebitarsi, però, era rimasto latente al pari di un obbligo morale. L’occasione per farlo è arrivata in questi giorni, con l’iniziativa “Un frigo per ogni cella”, promossa dal garante dei detenuti di Udine, insieme alle associazioni La Società della Ragione e Icaro Volontariato Giustizia, per alleviare il problema delle temperature insopportabili che aggravano le condizioni di vita delle persone recluse nella casa circondariale del capoluogo friulano.

Un frigo per ogni cella - Pinosa ha aderito alla raccolta fondi e si è fatto così carico dell’intera somma necessaria all’acquisto di 35 frigoriferi: 5.250 euro, che, grazie anche al contributo di chi, nel frattempo, non ha esitato a propria volta a partecipare con una propria quota di donazione, saranno investiti ora nell’operazione anti canicola. Chiudendo così il cerchio su una storia cominciata 44 anni fa. “Non appena liberato mi ripromisi di fare qualcosa per quel carcere - racconta Pinosa -. Rimasi in via Spalato soltanto 8 giorni, ma mi bastarono per capire cosa vuol dire essere privati della libertà. Scoprii un mondo diverso, che non avrei mai immaginato di conoscere. Ero terribilmente avvilito, ma i compagni con cui dividevo la cella non smisero mai di confortami”.

Dalla contravvenzione al carcere - Era stata la sua amata pistola da tiro a segno, quella con cui continua a sparare ancora oggi, a farlo finire nei guai. “Era ed è la mia grande passione - spiega -. L’avevo appena comprata e, non vedevo l’ora di andare al poligono a provarla. A due mesi di distanza da quando avevo portato tutti i documenti per il rinnovo del porto d’armi in Questura, a Udine, telefonai all’ufficio armi per sapere a che punto fosse la pratica e mi fu risposto che era tutto a posto e che mancava solo il visto del responsabile per consegnarmi la documentazione. Questione di ore, insomma”. Da qui, il passo falso. “Il sabato mattina richiamai, ma non rispose nessuno. Essendo stato rassicurato sulla regolarità delle carte, decisi comunque di andare al poligono di Udine - ricorda -. Lì, consegnai l’arma per il consueto controllo di polizia e fornii anche copia dei documenti portati in Questura. Ottenuto il via libera, mi dedicai ai tiri. Alla fine della gara, però, lo stesso poliziotto mi disse che doveva portarmi in Questura, perché, non avrei dovuto muovermi da casa con la pistola senza avere ricevuto il porto d’armi. Questo, mi disse, mi sarebbe costato una contravvenzione. Ma andò peggio. In Questura - continua -si presentò un anziano poliziotto che, mortificato, mi spiegò che in quel frangente - era il periodo della Brigate Rosse: qualche giorno più tardi avrebbero ucciso Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura - le disposizioni sui controlli di armi e porto d’armi erano rigidissime e che, di conseguenza, era costretto a portarmi in carcere. Mi crollò il mondo addosso”.

L’assoluzione e le scuse - Seguirono il processo per direttissima e una condanna a 4 mesi con la condizionale e la non menzione, oltre al sequestro dell’arma, ma con liberazione immediata. “In appello, a Trieste, fui assolto con formula piena, con le scuse del Tribunale - afferma Pinosa -. Ricordo ancora le parole del pubblico ministero, che chiese l’assoluzione ‘perché questo giovane - disse - abbia fiducia nella giustizia italiana’”. Un’esperienza indelebile, la sua, come la riconoscenza verso la struttura che lo ospitò. “Il tempo, poi, è passato. Qualche mese fa chiesi l’autorizzazione per poter visitare il carcere, ma la burocrazia è complessa e alla fine lasciai perdere. Quando però ho saputo della colletta per i frigoriferi - ha concluso -, ho pensato che fosse l’occasione ideale per onorare l’impegno che mi ero preso all’epoca”.