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di Giancarlo de Cataldo

La Repubblica, 1 novembre 2022

La norma-cardine è l’articolo 27 della Costituzione: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Il carcere, in altri termini, non deve torturare né peggiorare ma, se possibile, restituire alla società un individuo rinnovato, migliorato.

La questione dell’ergastolo ostativo concerne il divieto, per i condannati alla pena perpetua per delitti di mafia, di accedere alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventisei anni di pena, a meno che non abbiano collaborato con la giustizia. La mancata collaborazione è uno sbarramento alla concessione del beneficio: l’ergastolano mafioso può essersi ravveduto, ma se non collabora non rivedrà mai la libertà.

Ridurre il tutto a un derby fra super garantisti, magari sospetti di collusione, e immacolati paladini della legalità, è tipico di un tempo che ha in odio qualunque forma di complessità. E invece qui siamo al cospetto di un problema, appunto, complesso: sia dal punto di vista tecnico, sia perché investe alcuni fondamenti dello stato di diritto, a partire dalla funzione della pena detentiva nel nostro ordinamento.

La norma-cardine è l’articolo 27 della Costituzione: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Il carcere, in altri termini, non deve torturare né peggiorare, ma, se possibile, restituire alla società un individuo rinnovato, migliorato.

Intanto è ammesso l’ergastolo, pena che non conosce fine, e, dunque, estranea al processo di rieducazione, in quanto sussista sempre e comunque per ogni condannato la possibilità di superarlo attraverso la “giusta espiazione”, cioè quella che deve condurre al cambiamento. Da qui la liberazione condizionale dopo i ventisei anni di pena.

Il principio è consolidato anche in ambito europeo: e infatti, in tutti gli ordinamenti che lo prevedono, l’ergastolo sopravvive solo se può essere “sciolto” a determinate condizioni.

Il problema che oggi l’Italia si trova ad affrontare non riguarda tanto il nesso fra collaborazione ed ergastolo, quanto l’imposizione della prima come condizione per il superamento del secondo. Si pone a carico dell’ergastolano mafioso non collaborante una presunzione assoluta di pericolosità che non può essere vinta da nessun altro argomento: ad esempio, né dalla considerazione che potrebbe essersi ravveduto e non aver più niente di utile da comunicare agli inquirenti, né dal fatto che potrebbe aver troncato i legami con il crimine organizzato ma, parlando, esporrebbe i propri familiari al rischio di ritorsioni.

Tutti aspetti che la Corte Costituzionale ha già esaminato nel recente passato (2019) ritenendo questa presunzione di pericolosità irragionevole, e autorizzando per il condannato non collaborante, ma meritevole, i permessi premio.

Ora la questione si ripropone con riferimento alla liberazione condizionale. Dopo il monito della Cedu, con l’ordinanza nr. 97 del 2021, la Corte ha messo in mora la politica, fissando un termine entro il quale cambiare la disciplina attuale. Sostiene la Corte che un suo intervento diretto potrebbe avere l’effetto di rendere disarmonico il sistema, e si “prende un tempo” anche perché esamina le proposte di legge in discussione (e poi non approvate). Il termine sta per scadere, e la politica è corsa al riparo elaborando una norma d’urgenza alla ricerca di un contemperamento convincente fra il diritto alla sicurezza e il principio di rieducazione.

Il decreto-legge, anticipando l’imminente sentenza della Corte Costituzionale, dovrebbe sfuggire alle critiche sulla sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Ma c’è una diversa problematica da non sottovalutare.

Una norma “furba”, per così dire, una norma che sgretoli, sì, la presunzione assoluta di pericolosità, ma introduca tali e tanti vincoli da rendere, nella sostanza, impossibile l’ottenimento della liberazione condizionale, sarebbe anch’essa palesemente incostituzionale. E lo sarebbe perché le norme devono garantire l’effettività di un diritto, non solo la sua apparenza.

È bene si sappia che non si tratta di rimettere in circolazione legioni di assassini, ma di armonizzare due principi di pari dignità: la sicurezza e la rieducazione. Come ha scritto di recente Federico Varese nel suo brillante saggio La Russia in quattro criminali, “le grandi associazioni criminali prosperano nei regimi democratici, che combattono le mafie senza infrangere lo stato di diritto. Questo è il prezzo che si paga per rimanere umani”.