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a cura di Ornella Favero

Il Riformista, 25 marzo 2024

“Mi chiamo Emanuele, vengo da una famiglia di giostrai sinti, con un’attività che si spostava ogni settimana di paese in paese. All’età di sette anni i miei genitori, forse perché volevano il meglio per me, mi misero in un collegio, che però era un ghetto. Io ho preso talmente male questa decisione, che mi ero chiuso a riccio, non giocavo con gli altri bambini, non parlavo perché mi ero convinto che mi avevano abbandonato in quel posto orribile, gestito con punizioni durissime. A turno noi bambini dovevamo apparecchiare e lavare i piatti e se non svolgevamo bene i nostri compiti ci chiudevano dentro una stanza e ci facevano scrivere centinaia di volte “Non devo disubbidire alle regole”. E quante umiliazioni! Ricordo per esempio che mi tagliavano i capelli e i bambini mi dicevano “Sei uno zingaro, hai i pidocchi!”.

A 15 anni sono uscito con tanto rancore verso la mia famiglia, che ho cominciato a sfogare trasgredendo a ogni regola, insieme ad altri ragazzi, sempre giostrai, con i quali commisi il mio primo furto. Sono stato subito arrestato e portato nel carcere minorile di Treviso. Ci ho passato 45 giorni, ma l’ho preso un po’ come un collegio, non mi ha fatto paura. Finita la pena, ho continuato a fare furti,

i carabinieri mi portavano in caserma, mi facevano le foto, le impronte e dopo mi lasciavano andare. Io pensavo che finiva lì la cosa, e invece, quando avevo già 18 anni, mi vennero a prendere e mi portarono nel carcere per maggiorenni con una condanna di quattro mesi, e l’ho presa molto male, anche perché da lì mi sono arrivate altre condanne. Quello che pensavo che finiva lì invece non era affatto finito, avevo cumulato quattro anni di galera, che ho vissuto con molta sofferenza, sentivo che quella non era la vita che volevo.

E una volta scontata la pena, a 22 anni, mi sono trovato un lavoro onesto, come autista per la Bartolini, una compagna, ho avuto due figlie. Non frequentavo più le persone di prima, lavoravo regolarmente, mi prendevo cura della mia famiglia. Fino a quando mi vennero a bussare alle quattro di mattina i carabinieri e mi portarono in caserma. Io non capivo e chiesi al maresciallo per quale motivo ero lì di notte. La risposta fu che ero accusato di aver fatto dodici rapine in banca. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che da quando ero uscito dal carcere non avevo più commesso reati, ma il maresciallo mi gelò con la sua risposta; “Voi giostrai dite sempre di essere innocenti ma, sotto sotto, fate sempre quello che non dovete fare”.

Mi portarono in carcere, a Treviso, dove ho trascorso un anno. Dopo un anno sono uscito in scadenza termini e il mio processo l’ho fatto a piede libero, sono stato assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. Però in questo anno che ho passato in galera da innocente ho perso la famiglia, perché anche mia moglie quando ha visto l’ordine di cattura ha pensato che le avevo fatto promesse e poi tradito la sua fiducia, ho perso il lavoro e mi son mangiato quello che avevo messo da parte.

Sono uscito con tantissima rabbia, distrutto fisicamente e mentalmente, e mi sono detto che era inutile che rigavo dritto perché tanto ero sempre marchiato come dicevano loro. E non ho avuto nemmeno il risarcimento per ingiusta detenzione, perché al processo non avevo collaborato per chiarire la verità. Alla fine quando esci dal carcere, anche se ti hanno assolto, ricominciare una vita onesta è difficile, io non ce l’ho fatta. ho ripreso i contatti con i vecchi amici e ho ricominciato a fare reati”.

*Direttrice di Ristretti Orizzonti