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di Guido Salvini*

Il Dubbio, 25 ottobre 2023

Con l’imminente entrata nel vivo della discussione sulla separazione delle carriere sarà inevitabile il riaccendersi della più che trentennale guerra tra politica e magistratura, non esclusi “scioperi” indetti dall’Anm. Non vi è da stupirsi perché la Anm funziona come un partito e, anche, dopo la vicenda Palamara, le sue correnti “producono” quasi tutti i consiglieri del Csm, che a sua volta funziona come una “terza camera”. Uno stato di conflitto permanente quindi tra poteri dello Stato in cui il contendente non previsto, la Anm, con i suoi esponenti di spicco e i suoi organi di informazione, si muove praticamente alla pari con il potere politico.

Sulla separazione delle carriere è forse il momento di un approccio più empirico. Un modo di guardare che da un lato superi le pregiudiziali ideologiche di alcune forze politiche, che finiscono a diventare impuntature verbali, e dall’altro lato valichi il quadrato, anch’esso ideologico e pregiudiziale, in cui è arroccato il partito dei magistrati.

Che questo intenda muovere tutte le proprie forze, anche i riservisti, è del resto testimoniato da un episodio singolare. Oltre 300 magistrati in pensione hanno diffuso un appello pubblico contro la separazione delle carriere. È sufficiente scorrere i nomi e i volti dei promotori per capire che il cuore di tale appello è formato da ex pm, alcuni di loro molto noti e ancora influenti, potremmo chiamarli gli ultra- magistrati. Anche a servizio da tempo cessato non rinunziano, non come singoli ma proprio in gruppo, a orientare la magistratura come se in qualche modo la rappresentassero ancora.

Concordo certamente sulla necessità di distanziare i pm dai giudici per rendere effettiva l’indipendenza di questi ultimi da tutte le parti del processo e prevenire condizionamenti. Non mi convince però l’idea che siano inevitabili due concorsi distinti, sradicando tout court sin dall’inizio una cultura comune. Il concorso e il tirocinio dei neo magistrati che lo segue devono rimanere unici perché chi farà il pm deve impadronirsi bene del senso della giurisdizione, di quali siano le regole di giudizio e di cosa serva per portare a buon esito un’indagine mentre chi farà il giudice deve conoscere le metodiche delle indagini per comprendere se siano state svolte correttamente. Inoltre separare immediatamente i giovani pm dagli altri magistrati rischierebbe di subordinare i primi alla Polizia giudiziaria senza disporre ancora di una preparazione sufficiente per avere una autonomia di giudizio rispetto alla stessa.

Non si può nemmeno impedire che dopo la prima scelta di funzione non sia possibile almeno per una volta cambiarla. In una fase iniziale, penso ai primi 4 anni di servizio, il percorso professionale è ancora un work in progress, molti giovani magistrati non sono ancora nella condizione di decidere quale sarà la loro funzione definitiva e spesso la scelta iniziale è determinata da fattori esterni quali, soprattutto per chi non è tra i primi nella graduatoria, la disponibilità o meno di una sede prossima alla zona di origine.

Comunque i cambiamenti di funzione da giudice a pm e ancor più viceversa sono già ormai ridotti al minimo, in particolare da quando è stato reso obbligatorio lo spostamento in un’altra regione. Ed è esperienza comune che i pm più noti, quelli con la vocazione per l’investigazione, non sono certo ansiosi di trasformarsi in giudici e nemmeno avviene il contrario.

Sarebbe utile piuttosto prevedere che all’ingresso in carriera l’aspirante pm debba prestare servizio per i primi 2 anni in un collegio penale. Un passaggio che serva ad avere una concreta conoscenza del giudizio e del confronto in previsione delle delicate scelte e delle loro conseguenze che la sua funzione gli porrà. Anche il ruolo di gip del resto, e cioè quello che incide direttamente sulla libertà personale e comporta quindi una forte dose di equilibrio, può essere assunto solo da chi è in servizio da almeno 2 anni.

Un aspetto sempre trascurato è piuttosto quello del reclutamento. Basta frequentare, qualche debole tirocinio, ma ora non è più nemmeno obbligatorio, e aver “centrato” l’argomento di tre temi, addirittura solo due nel periodo post Covid, per acquisire, e per tutta la vita, un potere immenso, quello di giudicare persone, famiglie, aziende e amministrazioni in qualsiasi angolo della loro vita personale, economica e sociale. E che il livello medio dei concorrenti non sia così elevato lo testimonia la correzione dei temi negli ultimi concorsi durante la quale è emerso che molti aspiranti magistrati scrivono in un italiano zoppicante.

Non credo affatto che un semplice concorso, con l’alea insita in tale tipo di selezione, sia oggi una forma di reclutamento adeguata al ruolo. “Produce” magistrati di 27 - 28 anni, che spesso sino a quel momento hanno solo vissuto in famiglia, hanno scarse o nulle esperienze di vita e dei problemi della società. Sono convinto, anche se è un’opinione che può sembrare provocatoria, che siano necessari alcuni anni di immersione nella realtà, in particolare nel mondo del lavoro pubblico o privato, prima di essere abbastanza formati per giudicare gli altri.

Tanto più che, dopo il concorso, cessa, probabilmente tra gli incarichi di alta responsabilità avviene solo in magistratura, qualsiasi selezione. Infatti il 99 per cento dei magistrati transita senza difficoltà e senza una seria valutazione di capacità e di merito, dal grado più basso al grado più elevato della carriera.

Comunque i possibili condizionamenti che si vogliono contenere non nascono nel concorso unico ma nel Csm e nelle correnti. Come molti credo, ho perso di vista quasi tutti i colleghi che con me hanno vinto quel lontano concorso: c’è chi è andato in Procura, chi in Corte d’appello chi in Sorveglianza e chi in lontane sedi giudiziarie. Non sento l’influenza di alcuno di loro. Quello invece di cui si sente la presenza è il “collega” capocorrente, soprattutto se pm perché, per concorrere ad un incarico o in un procedimento disciplinare, puoi essere giudicato se non proprio da lui dagli uomini della sua corrente che siedono al Csm. E tanto nell’Anm quanto al Csm i pm, anche se inferiori per numero rispetto ai giudici, da sempre dominano esprimendo i capi e i consiglieri di maggior peso. Alcuni di loro sono dei veri e propri influencer, in grado di condizionare, anche tramite i mass media, l’intera categoria.

Non è un caso che, come ci racconta la vicenda Palamara, che quasi solo le assegnazioni ai posti di procuratore capo o aggiunto siano l’obiettivo dei traffici clientelari nei corridoi e negli alberghi, mentre poco o nulla interessano i concorsi per le presidenze dei Tribunali perché chi le ricopre ha un ben scarso potere. La soluzione è quindi essenzialmente separare il Consiglio superiore della magistratura in due organi, uno per i pm e uno per i magistrati e che ciascuno delle due categorie intervenga sulla vita professionale, promozioni, concorsi, sanzioni disciplinari solo di coloro che vi appartengono.

Senza escludere quando necessario, un contributo in forma di parere, alla luce del sole e motivato, da parte della componente dei giudici e anche dagli organi degli avvocati quando, ad esempio, si decida la nomina del procuratore capo di una Procura strategica, quelle, che, come si dice, hanno il potere di due Ministeri. In questo modo rimarrebbe comunque esclusa ogni forma anche indiretta di condizionamento sui giudici che non dovrebbero preoccuparsi di essere “graditi” ai pm più potenti. Poi, se si volesse usare un escamotage, non così banale come sembra, per impedire collegamenti troppo stretti tra pm e giudici sarebbe sufficiente che gli uni e gli altri lavorassero in due palazzi separati, così come gli uffici degli avvocati sono fuori dal Tribunale. Sarebbe molto più efficace questo di una separazione integrale che finirebbe a darci pm che conoscono solo, e qualche volta troppo e con troppa enfasi, il ruolo dell’accusatore.

*Magistrato