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di Chiara Lalli

Il Dubbio, 9 ottobre 2023

C’è una versione del femminismo che ha scelto una strada cieca: l’esperienza personale come unità di misura del mondo e come mezzo per cambiarlo. Mia nonna non poteva votare e non aveva la lavatrice. Se le due mancanze vi sembrano non paragonabili dovreste riascoltare Hans Rosling (The magic washing machine, Ted, dicembre 2010).

Roslin aveva solo 4 anni quando vede la madre caricare per la prima volta quello strano macchinario. I suoi genitori avevano messo da parte i soldi per anni per comprarla e quel giorno è un giorno speciale. Il cestello che gira è uno spettacolo incredibile, un miracolo. Non è difficile da immaginare, dopo aver lavato a mano per decenni - non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Ma quel miracolo è per il mondo privilegiato, perché ci sono ancora tantissime persone senza lavatrice. E come fanno? Lavano a mano, e sono principalmente donne, costrette a fare un lavoro faticoso e noioso, che una macchina potrebbe fare per loro.

L’altra sera mi sono ritrovata in una discussione tra asterischi, MeToo e diritti. Come spesso succede, c’è una impossibilità di capirsi tra chi ha un animo identitario e chi ha invece una propensione liberale (in senso classico), tra chi è convinto che un asterisco salverà il mondo e chi pensa che prima della schwa ci sono ancora delle leggi discriminatorie e non proprio femministe. Insomma, mentre qualcuno vuole cambiare il linguaggio per cambiare la realtà, per renderla più giusta, io penso alla lavatrice. E penso a tutti i diritti che ancora non ci sono - seppure nel nostro angusto mondo privilegiato.

Certo, intrinsecamente potrebbe non esserci una contraddizione ma è anche vero che le nostre energie e il nostro tempo sono limitati e forse ci sono delle cose più importanti di altre. L’impeto del MeToo si è attenuato ma restano tutte le domande e forse tutte le questioni che lo hanno fatto nascere. Come ottenere un mondo meno ingiusto? Come eliminare le discriminazioni sessiste e le disparità di genere?

Le leggi non bastano a migliorare il mondo ma sono certamente una condizione necessaria. Se posso sposare Giovanni e non Giovanna, se non posso accedere alle tecniche riproduttive e all’adozione solo con Giovanni (e non con Giovanna e nemmeno da sola), se rischio di fare una caccia al tesoro per sapere dove posso abortire, in che mondo vivo?

Non in un mondo giusto, ovviamente, ma abbiamo la lavatrice, possiamo votare, possiamo fare il lavoro che vogliamo (almeno non ci sono divieti), lo stupro non è più un reato contro la morale, riparabile con il matrimonio riparatore, la contraccezione e l’aborto non sono più illegali, il matrimonio non è un vincolo eterno e la maternità non è più un destino ineluttabile.

Non basta, come ho già detto. Ma non basta nemmeno scriversi slogan sulle mani o pensare che tutto sia sessista e tutto sia violenza imperdonabile. Perché se tutto è sessismo e tutto violenza imperdonabile, niente lo è più. C’è una versione del femminismo che ha scelto una strada cieca: cancelletti, mansplaning, l’esperienza personale come unità di misura del mondo e come mezzo per cambiarlo. La percezione spesso è considerata sufficiente per condannare o assolvere qualcuno o qualcosa, non servono dati e non servono buoni argomenti. È molto comune la fallacia rivendicativa che è meglio fare qualcosa di niente, così come comuni sono i ricatti delle buone cause e delle buone intenzioni.

Non ci sono soluzioni facili, ma possiamo imparare qualcosa dalla furia (comprensibile, per carità) giustizialista del MeToo? Dalle accuse e dagli esiti processuali di persone usate come capri espiatori di un sistema (da Woody Allen, sempre ripescato a caso, a Kevin Spacey)? È possibile passare dall’ignorare o dal sottovalutare le denunce delle donne a una valutazione attenta delle circostanze e alla verifica (per quanto possibile) delle prove e delle responsabilità senza per forza attraversare una fase di cieca e aprioristica condanna (in quanto uomo, in quanto figlio di un sistema tossico e patriarcale, in quanto qualcosa)?

Siamo cattive femministe se rifiutiamo la lagna come arma retorica, gli slogan semplicistici, la gogna come punizione e la punizione come giustizia? Siamo cattive femministe se ci dà fastidio il “tutti gli uomini” e l’annientamento della responsabilità personale? Siamo cattive femministe se non ci convince la natura femminile angelicata e se vogliamo rivendicare anche il diritto di essere stronze? Se ci viene da ridere invece di offenderci in-quanto-donne per lo scandalo del giorno (che spesso è solo un pretesto per mostrarci quanto siamo buoni e dalla parte giusta per dimenticarcene il giorno dopo) o per una vecchia canzone e ci piacerebbe garantire a tutte la possibilità di scegliere e uguali diritti e non una uguaglianza sostanziale e moralistica? Non ci sono soluzioni facili, ma intanto potremmo cominciare a non perdere tempo con le scemenze. E a non scambiare il marketing dei social per politica.