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di Michele Serra

La Repubblica, 3 maggio 2022

Bisogna che in galera finisca uno famoso, come Boris Becker, per scoprire che in Inghilterra esistono carceri vecchie di centosettant’anni, piene di topi, di promiscuità, di urla che bucano i muri. È la prigione di Wandsworth, in piena Londra, la stessa metropoli molto costosa e molto glamour dove Becker, per rimanere all’altezza della sua racchetta e della sua giovinezza, ha pasticciato con i quattrini al punto di venire condannato per bancarotta.

Prima di Becker da lì sono transitate migliaia di persone, di quelle che si definiscono delinquenti comuni (Becker, dunque, è delinquente non comune). Nessuno dei quali, però, è valso come testimonial di un degrado tanto più significativo quanto più illustre è il contesto urbano che lo porta in seno.

La Londra dickensiana di Wandsworth non è anacronistica: nel senso, evidente, che è nostra contemporanea. È la stessa Londra dell’alta finanza, del cosmopolitismo del miliardo che sopravvive con indifferenza anche alla Brexit, dei quartieri dove un metro quadro costa come un monolocale e un monolocale come un attico. Se ci fosse una ricaduta sociale di cotanta prestanza economica, un carcere, anche uno solo, non sarebbe il cesso di posto descritto da fonti inglesi. E a proposito di cesso, il cesso esposto alla vista, con l’impossibilità di appartarsi, è una delle umiliazioni più diffuse della vita carceraria, non solo a Wandsworth: ne ha scritto recentemente Luigi Manconi su Repubblica.

Naturalmente queste sono considerazioni buone solo per chi consideri lo stato delle carceri come una delle grandi prove che fanno di una democrazia una democrazia. Per gli altri vale l’idea che in carcere “si deve marcire”, come ampiamente udito, negli ultimi anni, per bocca dei più prestigiosi capipopolo.