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di Jacopo Storni

Corriere della Sera, 4 novembre 2022

Ignazio Vitale passa tutti i giorni al cimitero da suo figlio Roberto. “Lucido la sua tomba, parlo con lui, piango. La gente mi prende per matto ma è l’unico modo che conosco per vivere”. Roberto si è suicidato nel carcere Pagliarelli di Palermo lo scorso 15 settembre. Aveva 29 anni.

Suo padre Ignazio, ex poliziotto, è disperato. Ha scritto una lettera aperta: “Fate sentire la nostra disperazione. Roberto è andato in paradiso e anche se ha chiesto aiuto è stato ignorato. Era bellissimo e aveva una gran voglia di vivere. Era innamoratissimo della sua famiglia e della sua ragazza. Si faccia qualcosa per questi ragazzi”.

Questi ragazzi sono quelli che entrano in carcere vivi e ne escono morti. Suicidi, quasi sempre impiccati con le lenzuola legate alle inferriate delle sbarre. Nei primi dieci mesi del 2022 sono stati 74 i suicidi di detenuti in carcere, 35 in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Più di uno ogni quattro giorni.

Sin dall’inizio dell’anno il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante accelerazione, fino a raggiungere l’impressionante cifra di 15 suicidi nel solo mese di agosto: uno ogni due giorni. Molti di loro sono persone con problemi di salute mentale, a volte con dipendenze da sostanze stupefacenti. Talvolta la loro condizione psichiatrica non è compatibile con la detenzione. Però succede spesso che non ci sia posto nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, pensate in alternativa agli ospedali psichiatrici giudiziari. E allora questi detenuti restano in carcere, che spesso sono luoghi sovraffollati e carenti sotto il profilo dei diritti umani.

Lo scorso gennaio la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici.

L’ultimo detenuto suicida è stato un recluso di 36 anni straniero nel carcere di Torino. È morto impiccato il 28 ottobre. Era stato arrestato pochi giorni prima per il furto di un paio di cuffiette Bluetooth in un centro commerciale ed era in attesa dell’udienza di convalida. Prima di lui, Agostino Matassa, palermitano di 64 anni. Si è tolto la vita il 21 ottobre nella sua cella del carcere Morandi di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Si è impiccato con i lacci delle scarpe. L’uomo stava scontando una pena a 14 anni e mezzo di reclusione - che sarebbe terminata nel 2028 - dopo la condanna in via definitiva nel procedimento nato dall’inchiesta della Apocalisse riguardante le cosche mafiose palermitane.

E poi Azzeddine Akouirate, marocchino che si è impiccato nel penitenziario fiorentino di Sollicciano pochi giorni fa. Anche lui aveva 29 anni. “Aveva fragilità mentali, non doveva stare da solo in cella” raccontano i familiari, che adesso pensano a una denuncia. Era arrivato a Firenze quando era poco più che adolescente per vivere con i nonni e gli zii, invece Azzeddine ha finito i suoi giorni tra le sbarre. Aveva seguito un corso per diventare parrucchiere, poi aveva cominciato a lavorare nel salone di un parrucchiere. Non riusciva però a lavorare con costanza. Inizia così a fare uso di droga, cocaina soprattutto. Ha difficoltà nell’integrazione con gli amici italiani, si rifugia tra alcuni connazionali che delinquono. E comincia a delinquere anche lui. E viene arrestato. Prima di uccidersi, ha messo la chiavetta Usb dentro un lettore musicale e ha ascoltato una canzone di Cheb Nesro, cantante algerino di raï, genere musicale tradizionale dell’Algeria molto diffuso anche in Marocco. Poi ha ascoltato il Corano.

“Ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità, ma quando i numeri iniziano a diventare così alti non si può non guardarli con un’ottica di insieme. Come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti”, spiegano dall’associazione Antigone, che da anni si occupa di carcere. “Fuori dal carcere - spiega il coordinatore di Antigone Alessio Scandurra - il tasso di suicidio è di 0,67 persone ogni 10mila abitanti. In carcere sale a 10,6 persone ogni 10mila detenuti. Dieci volte tanto”.

Ne sa qualcosa Angela Di Somma, madre adottiva di Giovanni Cirillo, impiccatosi nel penitenziario di Salerno il 26 luglio 2020: “Il carcere dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, invece il carcere è un luogo di morte”. Giovanni aveva 25 anni, origini somale, in arte Johnny, rapper per passione. Da tempo richiedeva il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiatriche. Eppure era rimasto in carcere. “Lo Stato ha ucciso mio figlio” attacca Angela. Sul caso è in corso un’indagine della Procura. Ma non è l’unico caso di suicidio su cui la magistratura cerca di far luce.

Sono morti che si potevano evitare? Una domanda ricorrente, a cui i genitori delle vittime rispondono sempre sì, si poteva e si doveva evitare. Proprio come scritto da Ignazio Vitale nella sua lettera drammatica: “Roberto ha fatto quello che ha fatto perché, nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato. Il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un po’. Aiutatemi a far passare questo messaggio per poter aiutare chi si trova nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il mio figliolo. Grazie mille e prego affinché questo non accada più. Un saluto da un padre distrutto”.

Sul tema dei suicidi in carcere, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, interpellato da Corriere.it, preferisce non rilasciare interviste, almeno in questa fase, ma nei giorni scorsi aveva detto queste parole: “Quest’anno, in un momento difficile per il mondo del carcere, segnato anche dal dramma dei suicidi la ministra Cartabia e tutti i dirigenti generali dell’amministrazione penitenziaria sono stati negli istituti penitenziari per dimostrare riconoscenza ai nostri operatori, vicinanza alla popolazione detenuta e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica tutta verso la realtà penitenziaria”.