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di Tullio Padovani*

L’Unità, 5 luglio 2023

Il carcere è fatto per annientare, per rendere talmente docili da farti uscire con l’idea che null’altro potrà toccarti nella vita di peggio: alla radice del male non c’è il degrado, le condizioni di vita e strutturali devastanti, il disinteresse della politica. Il movimento abolizionista è nato in Paesi dove le prigioni sembrano alberghi.

Definire il carcere come “luogo di privazione non solo della libertà”, è riduttivo. “Luogo di privazione non solo della libertà” lascia pensare che in definitiva ci possa essere una sorta di misto composito: “c’è un po’ di libertà e poi c’è dell’altro”.

No, il carcere è un’altra cosa. Il carcere è il luogo della soppressione della libertà e della sua sostituzione con la disciplina e con l’ordine, due entità che sono l’antitesi speculare della libertà. Per motivare questa conclusione anticipata vorrei riportarvi alle origini, ma prima di farlo vorrei sgombrare il campo da una premessa che spesso inquina il discorso.

Noi ci concentriamo sulle condizioni di degrado del carcere, perché ne siamo giustamente colpiti. Quando andiamo a visitare un carcere ci offende vedere persone trasformate, nemmeno in animali, perché gli animali ricevono più cura, ma in qualche cosa di aberrante rispetto all’idea di uomo che chiunque di noi porta dentro di sé. Pensiamo che siano la struttura del carcere, l’assenza di mezzi, le condizioni materiali, la mancanza di finanziamenti, insomma la scarsa considerazione politica verso il carcere a costituire la radice del male e, quindi, che in definitiva il problema sia la riforma: il carcere deve essere riformato, portato a un livello tale da soddisfare l’esigenza costituzionale della funzione rieducativa.

Il carcere deve diventare quello che i costituenti hanno pensato dovesse essere. Noi non ci siamo ancora, abbiamo carceri devastanti dal punto di vista delle condizioni di abitabilità, spesso sono seminterrati e interrati, invasi dall’acqua, privi del minimo conforto, torridi d’ estate, gelidi d’inverno. C’è di tutto. Poi basta entrare in un carcere, visitarlo appena e si resta inorriditi. Ma con ciò finiamo col ripetere un rito che dura da duecentocinquanta anni circa, cioè dura da quando i riformatori settecenteschi decisero che la pena conveniente per la nuova società fosse la pena privativa della libertà personale.

Il carcere in luogo delle pene del regime precedente, dell’ancien régime: le pene corporali, le pene di morte, le pene di infamia, le fustigazioni, le mutilazioni e quant’altro; lo “splendore dei supplizi”, esibiti sul corpo del condannato in modo che restasse impresso su di lui il marchio di ciò che aveva commesso. Nella nuova società, il dato fondamentale che accomunava tutti gli esseri umani, resi uguali fra di loro, era l’uguale godimento di un bene, la libertà, che doveva essere punto di riferimento per punire, proprio perché la libertà è un bene uguale per tutti; tutti sono titolari di quello stesso bene, e la pena interviene su un bene che accomuna tutti.

Ma non solo questo: la pena carceraria, proprio perché consente di intervenire sulla persona diventa una pena utile, perché permette di far compiere al detenuto un percorso al termine del quale egli deve potersi reinserire nella società.

È l’utopia settecentesca delle pene che devono avere una finalità proficua: si punisce allo scopo di restituire alla società qualcosa di meglio rispetto a ciò che è entrato; il reato è rimasto fuori, la persona è entrata dentro, ed esce migliore. In taluni paesi questo percorso si è compiuto. Il carcere è stato riformato rispetto alle istituzioni penitenziarie settecentesche ereditate dall’ancien régime dove serviva soprattutto come istituto di custodia cautelare.

In Norvegia, ad esempio, trovate un carcere che in realtà è un albergo di buona qualità, con tanto di palestra, locale personale, bagno separato, giardinetto, godimento di tutto ciò che si può avere salvo la libertà di uscire, di andarsene in giro dove ti pare e ti piace, ma per il resto tutto quello di cui una persona può disporre: anche di visite a scopo di incontri sessuali.

Vivo in uno spazio separato, ma vivo come se mi trovassi, in buona sostanza, in un’altra casa che mi è stata destinata. Però, è proprio in questi paesi che è sorto il movimento per l’abolizione del carcere, proprio in questi. Gli abolizionisti sono per lo più studiosi di paesi dove il carcere ha avuto questa evoluzione riformatrice perché, all’esito di questa evoluzione riformatrice, si sono resi conto che il risultato non cambiava.

Se voi guardate su internet, mettete i nomi delle carceri tedesche, sapete cosa trovate? Un sito, destinato al carcere, che si presenta e che vanta le sue caratteristiche, come se fosse una beauty farm, un hotel ragguardevole; il tono non è proprio questo ma ci si avvicina: si indicano le attrezzature sportive, c’è la piscina, c’è la palestra, si ospitano detenuti di un certo tipo e si specifica quali, si indica quanti educatori ci sono, quali opportunità di lavoro, insomma, si legge e ci si conforta.

Poi andate in queste carceri e vedete che è tutto pulito, tutto in ordine, tutto perfetto come si conviene ai tedeschi. Non c’è niente che sia fuori posto. Poi parlate con i detenuti e scoprite che sono tedeschi anche nella “polizia”, nel senso che il trattamento è ispirato a un rigore disciplinare assoluto, drasticamente attuato, perché questa è la caratteristica reale del carcere ed è questo che determina il suo contenuto effettuale: l’essere un universo disciplinare.

E questo non c’entra niente con lo stato delle pareti, con i tubi dell’acqua, con i lavandini che non funzionano. Certo, se c’è pure questo, figuriamoci; ma direi che questo è un di più che, paradossalmente, serve a sviare il nostro sguardo, perché restiamo persuasi che il problema sia mettere a posto gli edifici, rendendoli più umani. Certo, va fatto, perché far vivere le persone in quelle condizioni disturba il sonno di ognuno che prenda coscienza.

Sono uscito da una visita recente al carcere di Pisa (era un po’ che non entravo in un carcere oltrepassando la soglia riservata agli avvocati) e vi confesso che non ho trascorso una notte tranquilla; e me ne rallegro. Certo, riforme sono indispensabili, ma non sono risolutive del problema, per niente; il problema del carcere resta.

A parte il fatto che il cammino di un carcere dal volto umano si è compiuto soltanto in certi paesi, nella maggioranza di essi questo cammino non si è compiuto. Il carcere è infatti soggetto a una prima legge fondamentale assoluta, inderogabile: deve rappresentare, comunque, la peggiore delle condizioni socialmente possibili in quel determinato contesto sociale; deve essere la peggiore, non può distanziarsene, neanche di una spanna, perché se se ne distanzia solo di una spanna si alterano le condizioni di sopravvivenza sociale, e può diventare appetibile.

Se il carcere desse lavoro, come pur sarebbe possibile, organizzando un’impresa in cui lavorassero solo i detenuti, scoppierebbe la rivoluzione: perché i disoccupati direbbero “Ma che dobbiamo fare? Dobbiamo andare a rubare per trovare un posto di lavoro?”.

Vedete, questo che vi sembra un discorso populista (e in una certa qual misura lo è) è un discorso nel quale, limitandomi a un aggiornamento di tipo verbale, riprendo le parole di un illustre socialista di fine Ottocento, che era anche un penalista, e che si chiamava Enrico Ferri: un uomo certo non sospettabile di derive autoritarie. Lui che veniva dal Polesine a chi si lamentava della condizione carceraria, replicava: se i detenuti hanno vitto pessimo e condizioni di salute precarie, andate a vedere i contadini del Polesine come vivono, con la pellagra, con la malaria, pieni di malattie, muoiono nei primi anni di vita come le mosche. E noi a questi dovremmo dire che ci occupiamo dei detenuti per rendere la loro vita migliore di quella che essi patiscono?

Quindi, il carcere dovrà sempre essere in fondo, e in un paese come il nostro il fondo sta piuttosto in fondo, fatalmente, inesorabilmente. In Norvegia starà pure giù, solo che l’ultimo gradino della Norvegia è incommensurabilmente più alto del nostro gradino mediano.

Ma anche in Norvegia il carcere è sempre quello che è, e che non può non essere. Per cui la prospettiva finale sarà inevitabilmente quella di doversi render conto che il carcere non può svolgere la funzione che gli è attribuita, non può essere rieducativo. Del resto, il legislatore costituente non ha mai detto che il carcere deve essere rieducativo, ha detto piuttosto che le pene debbono tendere alla rieducazione.

Ma quali sono le pene? Noi abbiamo un sistema carcerocentrico in cui tutto è incentrato su tale pena, ma l’articolo 27 richiama “le pene”, qualunque pena: anche quella pecuniaria deve tendere alla rieducazione; infatti, anche la pena pecuniaria deve essere modulata in modo da tendere a questo scopo. Il nodo che non si può sciogliere è costituito dal fatto che il carcere è un’istituzione totale; e quindi è un’istituzione dominata dal potere di disciplina.

Che cosa significa questo? Significa che si parte dal concetto di libertà personale per determinare la pena: cioè, io ti privo della libertà personale per poi “gestire” questa libertà personale in una istituzione nella quale, in realtà, tutto concorre a eliminare la libertà stessa, attraverso un meccanismo intensamente disciplinare. La disciplina non è un attributo della sola istituzione carceraria: la disciplina è un’invenzione della società moderna. Quando la società moderna si organizza produttivamente in modo alternativo rispetto al regime degli status medievali, di carattere personale, per cui ognuno faceva il mestiere secondo la sua appartenenza di ceto: i contadini erano servi della gleba ecc.

Quando tutto questo si rompe e tutti diventano uguali, titolari in astratto della stessa libertà personale, ecco che interviene a regolare il complesso di rapporti sociali non la fissità degli status (“tu sei servo della gleba e resti servo della gleba, tu e i tuoi figli” e così via a salire nella scala sociale fino al nobile che tramanda la propria posizione ai propri discendenti), ma la disciplina. Come rilevava Michel Foucault, si tratta, con la disciplina, di ottenere “corpi docili con i mezzi del buon addestramento”, e per rendere docile il corpo occorrono due tecniche fondamentali: l’arte della ripartizione e il controllo delle attività. L’arte della ripartizione si articola in quattro formidabili elementi: la clausura; la localizzazione elementare; l’ubicazione funzionale e il rango. Anche in una impresa trovate tutto questo, non solo in un carcere.

Difatti, anche in una impresa si pone il problema dell’invadenza del potere disciplinare. Nel Settanta, lo Statuto dei lavoratori di questo si occupava, di regolare i limiti della disciplina in fabbrica in quanto potere pervasivo. Ciascuno di questi elementi meriterebbe un commento particolare, cosi come il controllo delle attività che si rivolge all’impiego del tempo, all’elaborazione temporale degli atti di ciascuno, alla correlazione tra corpo e gesto, all’articolazione corpo-oggetto, all’utilizzazione esclusiva del tempo. Tutto è regolato, nel carcere, in modo ossessivo. Ed è regolato secondo uno schema che procede dal rito d’ingresso. Leggete Asylums di Erving Goffman e vi convincerete che non c’è modo di cambiare questa realtà se non eliminandola. All’ingresso, si realizza un processo di spoliazione della personalità: tu perdi tutto ciò che ti distingue, che ti caratterizza, non hai più oggetti personali, non hai più niente. Riceverai, in forma di privilegio, di premio, eventualmente, qualcosa in funzione di come ti inserirai nell’assetto disciplinare.

E nel corso di tutta la vicenda ogni tuo gesto, ogni tuo bisogno, ogni tua necessità saranno accompagnati dal vincolo a un’autorità che concede, limita, vede, valuta, controlla. Tu non sei titolare più di nessun frammento di libertà personale, sei oggetto di un potere disciplinare che ha sostituito l’intera tua situazione giuridica, e sino al punto di ridurti a un livello di infantilizzazione estrema: il detenuto deve diventare tosi docile da essere, in sostanza, plasmabile a volontà, sensibile a ogni movimento dell’autorità. Esattamente il contrario di ciò che si può supporre o ipotizzare costituisca una qualsiasi forma di educazione e rieducazione. Il carcere è fatto per sputare all’esterno rifiuti, inutili, inidonei, incapaci di tutto. Se poi qualcuno si salva da questo universo disciplinare non è certo in virtù delle capacità che il carcere abbia di sanare situazioni di questo tipo, ma solo grazie alle sue doti personali, alla sua capacità di resistenza, gli incontri che possono essergli capitati persino in un’istituzione come quella penitenziaria. Insomma, è un destino che lo riguarda personalmente ma che non riguarda l’istituzione, non la riguarda per niente.

Il carcere è fatto per distruggere, è fatto per annientare, è fatto per rendere talmente docili da farti uscire con l’idea che null’altro potrà toccarti nella vita di peggio se ti azzarderai a commettere ciò che hai commesso all’origine, quando sei entrato. Potrai essere terrorizzato all’idea del carcere, ma lo stato di spoliazione che hai subito, soprattutto nei periodi di lunga detenzione, sarà tale da impedirti in pratica di trovare un lavoro. Nella visita a Pisa, ho incontrato una persona, un detenuto, che raccontava “io utilizzo i permessi per andare a cercare lavoro”. Siccome era persona di bell’aspetto, robusto, e pronto a qualsiasi tipo di attività, riceveva lì per lì un’accoglienza favorevole. “Che cosa sai fare? “Mah, so fare questo, so fare quest’altro, sono disposto a fare tutto”. “Alt, benissimo, dice”. “Precedenti?” “Sono in permesso”.

“Ah, le faremo sapere”. Ovviamente senza seguito, perché è inevitabile che il carcere finisca col determinare uno stigma che socialmente risulta praticamente invalicabile. L’assistenza post carceraria un tema che accompagna la pena detentiva da duecentocinquant’anni. Se leggete la penitenziaristica ottocentesca vedrete che i problemi sono esattamente gli stessi, solo che allora c’era la fiducia, anche un po’ ridondante, di poter davvero determinare il destino delle persone. Un penitenziarista francese non esitava ad affermare che “Subito dopo Dio viene il legislatore penitenziario, perché, come Dio, anch’esso affonda nel profondo dell’animo degli uomini”. Non aveva capito ancora niente del carcere, anche se in quel momento si poteva forse riconoscere la buona fede, per quanto tradotta poi nella forma di mi controllo ossessivo, pervasivo e totale, che è l’obiettivo del carcere: Bentham, col Panottico, in cui il sorvegliante al centro ha la possibilità di controllare tutti i raggi, e ciascun detenuto sta nella sua celletta, visto costantemente senza poter vedere. È una distopia che si realizzerà, perché noi possediamo oggi gli strumenti per un controllo così fatto.

Probabilmente il carcere sarà abolito proprio quando questi strumenti di controllo ossessivo, pervasivo, totalizzante avranno raggiunto un livello di perfezione tale da potervi rinunciare, perché il controllo si eserciterà in una forma anche più accurata di quella che il carcere consente. Speriamo non sia così; quel che ritengo certo è che - non so fra quanti anni, mi auguro non molti - noi tratteremo il carcere come oggi trattiamo le pene di mutilazione, le pene di marchio, le pene di bollo, le pene di fustigazione, con lo stesso ribrezzo, con lo stesso orrore, con la stessa incredulità che nomini pensanti abbiano potuto concepire una tale mostruosità.

Speriamo che il tempo sia vicino, ma per ora contentiamoci di lottare perché questa istituzione sia messa in condizioni di nuocere il meno possibile. Lo scopo che dobbiamo cercare di raggiungere nel carcere è che esso sia il meno desocializzante possibile. Quanto, non possiamo dirlo, non sarà mai abbastanza, e in questa strada si incammina Nessuno tocchi Caino con una convinzione che è sempre assistita dal grande motto Spes centra Spem. Noi continuiamo a sperare contro ogni speranza. E non ci ferma nessuno. *Presidente d’onore di Nessuno tocchi Caino