sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Antonio Gagliano*

Il Dubbio, 21 novembre 2023

Il sospetto come valore assoluto: è l’abnorme principio che regola le misure di prevenzione antimafia. Così ventidue anni fa si è aperta una voragine nel diritto. Va dato merito al “Dubbio” di essere tra le poche testate che hanno denunciato la ripresa e la diffusione delle immagini dell’arresto dell’ex magistrato Silvana Saguto, e così l’esecrabile costume di “mettere in scena” con accorta regia - è proprio il caso di dirlo- un momento così tragico della vita di una persona e dei suoi familiari, per darlo in pasto ad un pubblico sempre più bramoso di compiacersi della sofferenza e della umiliazione specie di chi, già potente, sia caduto in disgrazia.

Generale è stata, nell’avvocatura italiana, la riprovazione per lo scempio della riservatezza e della dignità della persona, seppure proprio gli avvocati vivano ogni giorno le degenerazioni di un sistema - certamente non estraneo alla carriera dell’ex magistrato- che da decenni mortifica diritti anche fondamentali delle persone oltre che le facoltà e prerogative difensive.

La vicenda merita qualche ulteriore riflessione. Una delle inaccettabili conseguenze della grottesca, spietata spettacolarizzazione delle sequenze dell’arresto della dr. ssa Saguto è quella di concentrare l’attenzione dei molti sulla responsabilità del singolo e di distrarla dalle aberrazioni di quel sistema in cui gli illeciti, secondo la sentenza di condanna, sono maturati.

L’esposizione al pubblico ludibrio del mostro di turno torna utile per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dalle enormi disfunzioni del sistema delle misure di prevenzione e delle amministrazioni giudiziarie sicché, nei fatti, risulta più facile che quello stesso sistema, immutato, si perpetui come se nulla fosse accaduto. A ben guardare, è già successo anche di recente: sulla persona del dr. Palamara, ormai ex magistrato, si sono concentrate tutte le critiche afferenti al funzionamento del Csm e al governo della magistratura e però, individuato l’unico capro espiatorio e additatolo come l’origine e la causa di ogni presunta malefatta, le prassi e i metodi a quegli attribuite non sembrano affatto archiviate nel passato.

La vicenda giudiziaria della dottoressa Silvana Saguto e dei suoi dichiarati concorrenti non deve esser letta come un fatto isolato e personale cui sia estraneo il sistema, innanzitutto, normativo delle misure di prevenzione, specie patrimoniali e di conseguenza delle amministrazioni giudiziarie. È incontestabile che l’estensione quantitativa - sia per numero che per valore- dei sequestri e delle confische di prevenzione abbia assunto una dimensione talmente sproporzionata rispetto alle complessive attività economiche da rendere inverosimile che ad essa corrisponda il reale perimetro dell’economia illegale o comunque dei beni o attività di derivazione illecita. Nessuno ha dati completi e aggiornati sulla quantità di beni e aziende in sequestro, ma già i numeri parziali in vario modo raccolti - ad esempio, quelli dell’Osservatorio sulla raccolta dei dati dei beni sequestrati e confiscati, doviziosamente riportati nell’ottimo saggio “L’inganno” di Alessandro Barbaro - appaiono inquietanti: oltre 2.200 aziende e oltre 215.000 beni (quest’ultimo dato non comprende i beni strumentali delle aziende - che ovviamente sono tantissimi-, ma solo le proprietà personali) sono nelle mani degli amministratori giudiziari, e ben oltre il 90% di quelle aziende sono già chiuse, cioè sostanzialmente fallite, spesso ancor prima che sia intervenuto un definitivo provvedimento di confisca, mentre quell’enormità di beni mobili e immobili sono spesso in totale stato di abbandono.

È molto difficile credere che sia così ampia la fetta di economia illegale nel nostro Paese e, di converso, necessariamente così esigua quella della “economia legale”. È plausibile che una porzione così grande di operatori economici e di comuni cittadini sia riuscito a procurarsi e ad accumulare così tanti proventi illeciti? Siamo veramente un popolo di mafiosi e riciclatori? Sorge persino il dubbio che l’enormità del fenomeno dei sequestri sia il prodotto di un recondito fattore culturale in forza del quale si è portati a presumere, sino a prova contraria, che sia illegale ogni forma di privata attività economica, sicché l’entità e quantità di sequestri non debba incontrare nemmeno un limite di ragionevolezza in un qualche rapporto di misurata proporzionalità tra il complesso delle attività lecite e quelle di presunta natura o di derivazione illecita.

Invero le presunzioni, spesso insuperabili, di fatti o condotte illecite, accompagnate dall’esaltazione del sospetto quale criterio di ogni giudizio, rappresentano i due pilastri su cui si regge il nostro sistema delle misure di prevenzione e, di conseguenza, quello dei corrispondenti sequestri e confische.

In tema di misure patrimoniali l’illiceità dell’accumulazione di beni o attività è presunta, addirittura per volontà normativa, e si fonda sul sospetto che si sostituisce ad ogni accertamento e che, ovviamente, non abbisogna di prove e nemmeno di gravi indizi: è più che sufficiente anche il mero, labile indizio anche se risulti contraddetto da altre risultanze di segno contrario. Il fulcro “normativo” del sistema sta nell’art. 4 del “codice antimafia” (d. lgs. 159/ 11) laddove (lettere “a” e “b”) si prevede che le misure di prevenzione “si applicano” (si noti la forma completamente “dispositiva”, che tende a precludere ogni spazio di autonoma valutazione da parte del Giudice) ai soggetti “indiziati” di appartenenza mafiosa ovvero di un reato in vario modo connesso o collegato a quello di associazione mafiosa.

Esiste termine più ambiguo, equivoco, sfuggente, scivoloso di quello di “indiziato”? A differenza del codice di procedura penale quando ad esempio si occupa delle misure cautelari, il codice antimafia non contiene alcuna indicazione sulla “qualità” dell’”indizio” (come ad esempio l’aggettivazione di “grave” o almeno di “sufficiente”), sicché l’elemento fattuale che induce verso una possibile responsabilità (quale appunto è l’indizio) può essere anche labile o congetturale. Né si richiede che si riscontri una pluralità di indizi ovvero l’assenza di elementi di segno contrario, in quanto favorevoli al destinatario della misura. E, di certo, non può tranquillizzare il fatto che l’indiziato di 416 bis o reato collegato sia un soggetto iscritto nel registro delle notizie di reato perché sottoposto ad indagini: è paradossale, infatti, che il dato formale di “indagato”, concepito quale strumento di garanzia, nell’ambito delle misure di prevenzione sia mutato in una sorta di subdolo cavallo di Troia da cui arriva, in modo pressoché automatico, il disfacimento del patrimonio e della vita del malcapitato.

È noto peraltro quanto spesso sia strumentale, o anche solo negligente, l’iscrizione di un cittadino nel registro delle notizie di reato ovvero il suo permanervi per lungo tempo: si rabbrividisce al solo pensiero che la semplice condizione di indagato possa comportare conseguenze così tragiche e nei fatti irreversibili. La mera condizione di “indagato/indiziato” - di nessun significato sul piano sostanziale perché un’indagine in corso, o anche un indizio, non rappresenta un giudizio di responsabilità- comporta l’adozione del sequestro del patrimonio, o di parte di esso, di aziende, beni produttivi, risparmi, persino beni e valori di affezione per il caso in cui vi sia sproporzione tra il valore di tutti i compendi e i redditi dichiarati, ovvero quando, sempre sulla scorta di meri indizi e non già prove, risulti la provenienza illecita.

Il tema della sproporzione patrimoniale (tra il valore dei beni o aziende e i redditi formalmente dichiarati) è uno dei più sofferti nella concreta applicazione delle misure di prevenzione. La sproporzione viene valutata - quasi sempre dalla Guardia di Finanza- in assenza di qualsivoglia contraddittorio, nel segreto dell’attività di Polizia giudiziaria. Il dato non ha valenza solo formale perché l’interessato potrà provare a smentire - ovviamente quando sia in possesso di probanti elementi a suo favore- la valutazione di “sproporzionalità” soltanto dopo l’esecuzione del sequestro e le sue ragioni verranno valutate nei tempi mai brevi del giudizio innanzi al Tribunale di prevenzione. In altre parole, le sue giustificazioni potranno avere ingresso quando la “feconda” azione degli amministratori giudiziari avrà già avuto il suo infausto corso, insomma quando l’azienda sarà già chiusa o decotta ovvero quando i beni, specie se produttivi, saranno da tempo stati abbandonati al loro destino o, nella migliore delle ipotesi, quando clienti e committenti saranno spariti, crollato il giro di affari, disdettati gli appalti e via discorrendo. Ma quel che è più grave è che le indagini “patrimoniali” sulla presunta sproporzione quasi sempre si fondano su dati che è impossibile contestare in ragione del fatto che l’interessato non ha più accesso a documenti o atti della amministrazione o di terzi (ad esempio, banche) che ben potrebbero giustificare la provenienza dei suoi averi.