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di Donatella Stasio

La Stampa, 23 agosto 2024

Il giustizialismo con chi è stato condannato sta violando i diritti civili. Non si risolve il sovraffollamento delle celle pensando di costruire nuovi istituti. Con una lettera pubblicata su questo giornale, le detenute del carcere di Torino hanno scritto al presidente della Repubblica di aiutarle a rompere il muro di indifferenza sull’emergenza carcere alzato dal governo Meloni, sordo a qualunque grido di dolore, cieco di fronte all’inciviltà delle nostre prigioni, inflessibile verso chi marcisce in galera perché la pena deve essere “certa”, feroce verso chi protesta, e pazienza se i diritti fondamentali vengono calpestati, se si muore di carcere “naturalmente” o inalando gas oppure appesi a una corda.

Non mi piego e non mi spezzo è il refrain di questo governo, autoproclamatosi “giustizialista dopo la condanna, altrimenti sarebbe una resa dello Stato” spiega il ministro “liberale” della Giustizia Carlo Nordio: l’esatto contrario di quanto ci ha spiegato un altro liberale, uno dei maggiori filosofi del diritto, l’americano Ronald Dworkin, e cioè che la violazione dei diritti fondamentali produce un danno incalcolabile perché “mortifica l’orgoglio e l’onore di una nazione”, mentre il rispetto di quei diritti, lungi dall’essere un “impiccio” di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi, è “la briscola”, la carta vincente di ogni partita, anche sulla sicurezza. Parole che, guarda caso, hanno un riscontro nelle ricerche statistiche sulla recidiva degli economisti di tutto il mondo, eppure ignorate, se non travisate, dal governo. Ma attenzione: se, come diceva Anna Harendt, la verità non è annoverata tra le virtù politiche, a lungo andare la menzogna si ritorce contro chi la pratica, con conseguenze gravi per tutti.

Vale allora la pena raccontare un po’ di verità, almeno sui numeri tirati fuori dagli economisti. Partiamo proprio dalle donne detenute, anticipando il risultato di una ricerca ancora in via di definizione, condotta da F. Calamunci, G. Daniele, G. Mastrobuoni e D. Terlizzese, riguardante 10.200 detenzioni nell’arco di 10 anni, dal 2012 al 2022. L’universo detentivo femminile è circa il 4,5% della popolazione ristretta in Italia (2.682 su 61.133 persone) e il 7% di quella detenuta nel mondo. In Italia, sono solo quattro gli istituti interamente dedicati alle donne, anzi tre (Roma Rebibbia, Trani, Venezia Giudecca) da quando Pozzuoli è stato chiuso per il terremoto.

Pertanto, oggi solo 459 donne scontano la pena in carceri totalmente femminili mentre la maggioranza è confinata in sezioni di carceri maschili, ancora più abbandonate quanto a opportunità lavorative qualificanti, trattamentali e di socialità. Una scelta dettata da motivi economici: siccome le donne sono poche, si ritiene meno costoso relegarle nell’ala di una struttura maschile invece che destinare ad esse un intero carcere. Ma alla prova della recidiva, questa scelta si rivela miope. Gli economisti autori della ricerca dimostrano che, se la pena è scontata in un carcere tutto femminile, la recidiva si riduce tra gli 8 e i 15 punti percentuali rispetto a chi sconta la pena, a parità di condizioni, in carceri miste.

Un’altra ricerca firmata sempre da Mastrobuoni e Terlizzese (pubblicata nel 2022 sull’American Economic Journal: Applied Economics) ci dice che, per produrre sicurezza, le carceri devono essere luoghi a prova di Costituzione. La recidiva si riduce fino a 10 punti percentuali per ogni anno di pena scontato in carceri aperte, rispettose del dettato costituzionale, e quindi dei diritti fondamentali, invece che in carceri chiuse (come sono, nella quasi totalità, le carceri italiane) in cui, una volta entrati, viene “buttata la chiave”.

Alla luce di questi dati, risulta controproducente il “giustizialismo dopo la condanna” rivendicato dal governo Meloni. Che rifiuta l’ipotesi di un indulto per azzerare il sovraffollamento (siamo già a un esubero di 15mila detenuti rispetto ai posti disponibili) travisando di nuovo i risultati di due ricerche statistiche: dalla prima (Sarzotti, Jocteau, Torrente) emerge che, degli oltre 27mila indultati usciti dal carcere nel 2006, ne sono rientrati, nel 2007, circa il 20%; la seconda (Drago, Galbiati, Vertova) evidenzia che dopo quel provvedimento, il tasso di recidiva è diminuito del 25%, per cui l’indulto è stato “una misura efficace contro il crimine”.

In una fase di emergenza che reclama misure urgenti ed efficaci, non si può rispondere “costruiremo nuove carceri”, anzitutto per i tempi biblici necessari, poi per la sperimentata scadente qualità delle carceri “moderne” e infine perché, senza una cultura costituzionale della pena, avremo solo “contenitori di corpi” e “cimiteri dei vivi”. E allora, che fare? La Corte costituzionale ci ha ricordato che la società è corresponsabile della risocializzazione del condannato. Dunque, il governo deve rimboccarsi le maniche subito per riorganizzare un servizio che favorisca quell’esito e la magistratura di sorveglianza deve stare con il fiato sul collo dell’amministrazione per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, entrando in carcere più di quanto non faccia ora.

Ma perché ciò sia possibile, bisogna anzitutto eliminare il sovraffollamento. E l’unica strada è, realisticamente, un indulto “chirurgico”, come chiedono i Garanti territoriali dei detenuti. Dopo non ci saranno più alibi per continuare a violare i diritti dei reclusi, riaffermati dalla Consulta: la dignità, “valore che non tollera riduzioni”; la salute, diritto “non bilanciabile con alcun motivo di sicurezza”; l’affettività, da coltivare con la necessaria intimità per evitare la “desertificazione affettiva” del carcere, “l’esatto opposto della risocializzazione”.

E poi lavoro, istruzione, privacy. Impossibile? Assolutamente no. Ci riuscì un direttore, Eugenio Perucatti, tra il 1952 e il 1960, che riuscì a trasformare quella Caienna del carcere di Santo Stefano in una comunità operosa e rispettosa della Costituzione. Poi il clima politico virò a destra e tutto finì: il governo Tambroni (un monocolore Dc con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano) troncò quella realtà virtuosa - definita una “villeggiatura” dai media allineati - in ossequio all’idea di carcere come segregazione per garantire “ordine e sicurezza”.

L’Italia non è ancora in grado di giocarsi la briscola della Costituzione perché, purtroppo, non è ancora un Paese con una vera mentalità costituzionale. E tuttavia, bisogna sapere che le bugie sulla “certezza della pena” e sul “giustizialismo” non garantiscono la nostra sicurezza e che, per vincere questa partita, bisogna pretendere il rigoroso rispetto dei diritti dei detenuti. Non è un’opzione ma un dovere di chi governa, a prescindere da quel che è stato fatto, o non fatto, “prima”, e senza aspettare che a imporlo siano la Consulta, il Quirinale, oppure l’Europa, come nel 2013. All’epoca, solo di fronte allo spauracchio di gravi sanzioni economiche si mise in moto un processo virtuoso che, però, non è stato portato a compimento perché mancò il coraggio politico di affrontare gli elettori con la Costituzione in mano. Forse oggi è ancora più utopistico riprendere quel cammino, sebbene sia in gioco “l’onore della nazione”. Ma come dice un proverbio magrebino, “se nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, solo le utopie fanno andare le carovane”.