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di Carlo Bonini

La Repubblica, 7 dicembre 2022

Si dice, a ragione, che la giustizia italiana, a cominciare da quella penale, abbia disperato bisogno di un suo Giustiniano. La notizia è che ha trovato il suo Nerone. Che oggi veste i panni del ministro di Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato arruolato dal governo della destra nel ruolo di angelo vendicatore.

Nel suo “vasto programma” di demolizione di alcuni pilastri costituzionali della giustizia penale illustrato ieri al Senato, si rintracciano infatti due caratteristiche identitarie di questo governo: la rozzezza degli argomenti e la furia iconoclasta nei confronti delle istituzioni di garanzia e controllo. Ieri la Banca d’Italia, oggi l’ordinamento giudiziario, lo statuto del pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale, immaginata e voluta dal costituente non come una minaccia alle libertà politiche e non dell’individuo, alla sua privacy e dignità, ma come garanzia di un controllo diffuso e dunque democratico di legalità.

È a ben vedere l’esito drammatico di trent’anni (tanti ne sono trascorsi dalla stagione di Mani Pulite) in cui la magistratura italiana, prigioniera di una deriva corporativa, ha mancato troppe volte l’appuntamento con una necessaria riforma e autoriforma, in cui il codice di procedura penale, in alcuni dei suoi istituti fondamentali (come la prescrizione) è stato manomesso dalle leggi ad personam, e durante i quali la politica, orfana di una legittimazione sostanziale agli occhi dell’opinione pubblica, ha ritenuto che la via maestra fosse quella di addomesticare una funzione cruciale per una democrazia quale è quella del controllo di legalità. La sola, purtroppo e non certo per colpa della magistratura, ridotta a metro di responsabilità dell’agire politico.

In questa desolante prateria, dove nulla sembra interdetto agli “unti” dal popolo, ha dunque avuto buon gioco Nordio a trasformare un’audizione parlamentare in una performance politicamente sgangherata che, riesumando in modo macchiettistico l’ossessione del trentennio, garantisti versus giustizialisti, ricordava nella genericità e grossolanità degli argomenti qualche comiziaccio di piazza o talk-show da tarda serata. Nelle parole del ministro, tutti i luoghi comuni sulla giustizia penale del ventennio berlusconiano si allineano infatti in una narrazione dove il cittadino comune, l’imprenditore, il politico, gli “uomini del fare” insomma, si ritrovano in balia di pubblici ministeri occhiuti, fuori controllo, armati di armi formidabili e terribili (le intercettazioni telefoniche) in grado di definire le sorti dei singoli e del Paese. Una metastasi intollerabile rispetto alla quale il rimedio non può che essere demolitorio. Mano alla Costituzione, fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, pubblici ministeri fuori dall’ordine giudiziario e dunque con carriere separate e sottoposti all’autorità politica, giro di vite sulle intercettazioni.

Sarebbe pedante e prolisso prendere ciascuna delle proposizioni del ministro per dimostrarne la sommarietà e in taluni casi persino l’enormità. Ricordando, ad esempio, che già oggi la legge prevede un solo passaggio nella carriera dei magistrati tra ruolo requirente e giudicante. O che se è vero che l’Italia è il Paese in cui la magistratura ricorre più che in ogni altro sistema alle intercettazioni, è altrettanto vero che l’Italia è il solo paese al mondo dove le intercettazioni sono e possono essere soltanto giudiziarie. Disposte cioè soltanto da un magistrato e in un perimetro di regole rigide e controlli giurisdizionali (fanno eccezione quelle “preventive” dei nostri Servizi segreti per le quali è tuttavia prevista l’autorizzazione della Corte di appello di Roma). Il che ne spiega il gran numero. Sarebbe altresì utile soffermarsi sulla manipolazione evidente che Nordio fa dello spirito con cui, nel 1991, la riforma del processo penale rese il pubblico ministero dominus delle indagini di polizia. E non certo per renderlo “un poliziotto” e come tale “non degno” di essere nel medesimo ordine della magistratura giudicante. Ma perché sulle indagini di polizia vi fosse un controllo giurisdizionale. Detto altrimenti, sarebbe interessante immaginare cosa ne sarebbe stato di un’indagine come quella sulla morte di Stefano Cucchi o sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’Italia immaginata da Nordio, quella dell’azione penale non obbligatoria e dei pubblici ministeri riformati al rango di longa manus degli organi di Polizia. E sarebbe altresì interessante comprendere attraverso quale percorso logico il ministro “garantista” che tuona contro l’uso dissennato delle intercettazioni sia lo stesso che, come primo atto di governo, ha introdotto l’uso delle intercettazioni e una pena detentiva a 6 anni per chi organizza rave.

La verità, ancora una volta, è che, di fronte alla dimensione immane della sfida di governare il Paese in uno dei momenti più difficili della sua storia recente, la destra sceglie la scorciatoia del feticcio identitario. E, nel caso della annunciata riforma della giustizia penale, con un’operazione particolarmente odiosa. Vendere al Paese come un “cantiere di libertà”, un progetto di controriforma classista della giustizia penale. Implacabile con i disgraziati, felpata con i garantiti. Dove sarà l’autorità politica a indicare a pubblici ministeri non più membri dell’ordine giudiziario quali reati perseguire e quali no. E chi sa se la presidente del Consiglio Giorgia Meloni troverà il tempo di spiegare in modo meno sciatto di quanto abbia fatto ieri, come stiano insieme la cultura della giurisdizione di Paolo Borsellino, il magistrato che, a suo dire, che le fece scoprire la passione civile per la politica, e quella del suo Nerone avvistato ieri a Palazzo Madama.