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di Elsa Fornero

La Stampa, 3 luglio 2022

C’era un tempo, nella seconda metà degli Anni Settanta, in cui quando, nel corso di macroeconomia, si arrivava a parlare di inflazione, gli studenti seguivano affascinati ed eri certa che ne avrebbero discusso la sera, a cena in famiglia. L’inflazione era allora esperienza comune di perdita di potere d’acquisto dei salari, dei rendimenti, e spesso anche del valore, dei “titoli” posseduti; dei profitti delle imprese più esposte alla concorrenza. Un’esperienza amara per la maggior parte delle famiglie a reddito fisso, occupate nel settore privato e con qualche risparmio e vissuta con difficoltà dalle imprese maggiormente esposte alla concorrenza estera. Il settore pubblico la guardava con minore preoccupazione, perché era più facile ai pubblici dipendenti chiedere, e agli enti pubblici concedere, aumenti compensativi dell’inflazione, finanziabili con tassazione o con debito. Era, infine, vantaggiosa per gli “sceicchi” e le “sette sorelle” del petrolio perché tutto aveva il suo centro nell’aumento dei prezzi dell’oro nero. Nell’ottobre 1973, a seguito della guerra tra Israele e i Paesi arabi, il prezzo del petrolio quadruplicò in poche settimane; con la rivoluzione iraniana del 1979, ebbe un nuovo balzo.

La storia si ripete, oggi, poiché l’aumento dei prezzi dell’energia è in larga misura dovuto alla guerra russo-ucraina. Allora si parlò di “tassa degli sceicchi”; oggi si parla della “tassa di Putin” ma a queste cause originarie si aggiungono (oggi come allora), altre “tasse” da parte di chi, dominando un mercato nel quale vende i propri prodotti, riesce non soltanto a recuperare gli aumenti di costo ma anche a realizzare “extraprofitti”. Allora ne derivò una rincorsa prezzi-salari, alimentata anche da un meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni (e, in misura minore, delle pensioni) ai prezzi, che portò l’inflazione italiana a superare il 20 per cento e costrinse la lira a periodiche, ma non risolutive, svalutazioni, una sorta di “svendita” dei beni nazionali per incoraggiare la domanda estera. Una scappatoia impossibile oggi con l’euro.

Le lezioni di allora sull’inflazione avevano un’importante postilla: qualunque ne sia l’origine, riducendo la circolazione di moneta i prezzi dopo un po’ si stabilizzano. A costo, però, di una recessione dell’economia, con conseguenze pesanti in particolare per la parte più fragile della popolazione. Anche oggi, con gli aumenti dei prezzi energetici, la medicina monetaria è la sola che le banche centrali possono percorrere, se lasciate sole. Riaffiora però il rischio di una brusca frenata delle economie, sorrette, in questi anni di crisi ripetute, da politiche espansive dei governi, generosamente finanziate proprio dalla Fed, dalla Bce e, novità assoluta, dalla Ue. C’è però un’altra medicina potenzialmente efficace e cioè la “politica dei redditi”, un patto sociale che riconosce che con inflazione “da costi” (energia e materie prime), il Paese nel suo insieme perde qualcosa a favore del resto del mondo ma al suo interno non tutti perdono. E che chi perde deve essere almeno parzialmente indennizzato, in una prova di coesione sociale e di equilibrio tra interessi contrapposti. Un’importante esperienza di questo tipo fu il “patto per la politica dei redditi e lo sviluppo” del ‘93, con Ciampi presidente del Consiglio, di cultura liberale e di forte sensibilità al problema della diseguaglianza.

Partire dalla “politica dei redditi” invece che lasciare alla sola politica monetaria e al conflitto sociale la definizione dei vincitori e dei perdenti dell’inflazione sembra oggi ancor più necessario che in passato. Posto che lo shock esterno finisca con il termine della guerra (una data che nessuno conosce) e che a esso si riuscirà a porre rimedio solo nel medio periodo (con diversificazione delle fonti energetiche), la risposta nel breve termine non può che derivare da un accordo che tenga conto del fatto che i salari in Italia sono fermi da circa vent’anni e tra i più bassi d’Europa, sicché non è possibile che l’inflazione si scarichi sui redditi fissi e sulle innumerevoli partite Iva “di necessità”, di chi non riesce a trovare posti di lavoro a tempo indeterminato e soffre della precarietà del lavoro; soprattutto i giovani tra i quali cresce la povertà. Il debito (la soluzione preferita dai politici, perché non li obbliga a scegliere dove impiegare risorse sempre scarse) non può continuare a salire, e già oggi espone il Paese a ogni tempesta sui mercati finanziari. La politica fiscale va ripresa in mano con aggiustamenti che ristabiliscano un equilibrio tra lavoro e rendite, tra giovani e anziani, tra protetti e precari. La riduzione del cuneo fiscale deve avvenire in questo quadro, non semplicemente emettendo nuovi debito. Forse sarebbe bene, a proposito di “patti sociali”, ricordare la memorabile frase di Luciano Lama: “Non voglio vincere contro mia figlia”. L’inflazione, in definitiva, non è un fatto tecnico ma uno sconvolgimento sociale che rimescola quasi tutte le carte dell’economia e della società; è inevitabilmente materia di “alta politica”. Si vedrà se la nostra politica sarà capace, per una volta, di agire unitariamente in base a interessi generali invece di fissare l’attenzione soltanto sulle ormai prossime elezioni.