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di Antonio Mattone

Il Mattino, 23 gennaio 2024

Ancora un suicidio nel carcere di Poggioreale. Cosa sta succedendo nel penitenziario napoletano dove si sta consumando una vera e propria strage di detenuti? È difficile dare una risposta univoca e immediata a questo interrogativo. Tuttavia queste morti non ci possono lasciare indifferenti e per provare a capirci qualcosa bisogna entrare nei meandri di un luogo tanto complesso quanto pieno di criticità. Innanzitutto bisogna dire che il penitenziario napoletano è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario che non funziona più e su cui è caduto un silenzio tombale. La politica, di destra e di sinistra appare disinteressata al destino dei carcerati, mentre l’opinione pubblica segue il pensiero dominante e non mostra alcuna empatia per chi in fondo “se l’è voluta”.

È il terzo nel giro di una settimana. Questa volta è stato un giovane di trentacinque anni del padiglione Livorno a togliersi la vita. A questo va aggiunto un detenuto trovato morto all’inizio del nuovo anno, su cui è stato avanzato il sospetto che si possa trattare di un omicidio, e si aspettano gli esiti dell’autopsia per determinare la causa del decesso.

Le criticità di Poggioreale stanno innanzitutto nei numeri. Troppi detenuti, poco personale, non solo agenti ma anche educatori, mediatori culturali (uno solo) e dirigenti penitenziari. Ci sono vicedirettori a mezzo servizio, che dividono la loro attività tra più sedi, con la conseguenza di non poter garantire la continuità prestazionale.

Per non parlare della salute, con due soli psichiatri ad osservare e curare duemila detenuti, e con i tempi biblici per prenotare esami specialistici e interventi che non si possono fare all’interno di quelle mura. E poi quando magari arriva il fatidico giorno, tutto salta per la mancanza della scorta degli agenti, come è successo anche per chi si doveva sottoporre a terapie importanti.

Inoltre ci sono ancora diversi padiglioni fatiscenti, dove la vita quotidiana diventa davvero difficile. Anche le attività trattamentali, soprattutto in alcuni reparti, sono carenti e fini a sé stesse: quasi mai consentono l’ingresso nel mondo del lavoro.

Oggi nelle carceri italiane c’è una presenza variegata di persone, differenti tipologie che hanno tratti e caratteristiche eterogenee. Accanto agli esponenti della criminalità organizzata e a chi abitualmente è contiguo all’ambiente malavitoso, c’è un vasto mondo di marginalità sociale fatto di senza dimora, immigrati, tossicodipendenti, persone con patologie psichiatriche. Ci troviamo di fronte a detenuti sempre più aggressivi e arroganti da una parte e da malati ed emarginati dall’altra.

Una commistione che rende più difficile il lavoro degli operatori penitenziari e condiziona i reclusi più fragili.

Tuttavia per comprendere come si possa arrivare a compiere la decisione estrema di togliersi la vita bisognerebbe partire dalle storie individuali di ciascuno.

Ma poi c’è un filo comune che ricongiunge tutti questi tragici avvenimenti. È quella disperazione che non fa vedere sbocchi e vie d’uscita alla propria situazione, a cui spesso si accompagna un’estrema fragilità e una grande solitudine. Una miscela che finisce per produrre un corto circuito letale.

Quella di togliersi la vita è una tragica decisione che viene presa nei primi giorni dell’ingresso in carcere, come avvenuto al detenuto marocchino del padiglione Firenze o in prossimità della liberazione, come nell’ultimo caso.

C’è chi non regge il peso della carcerazione, e chi vive l’angoscia di un futuro incerto una volta libero.

E qui una riflessione va fatta. Permettere a chi va verso la fine della pena di scontare gli ultimi mesi in misura alternativa può rendere meno traumatico il “ritorno in società”. Passare dal carcere alla “vita” senza la possibilità di cominciare a costruire il proprio futuro può essere traumatico, soprattutto quando si perdono il lavoro e si rompono i legami familiari. Non si sa da che parte cominciare e si viene presi dallo sconforto.

Inoltre, come ha dichiarato lo stesso Ministro della giustizia Carlo Nordio, per i reati minori esistono sanzioni molto più efficaci della detenzione.

Un’altra considerazione va fatta sull’effetto emulazione. Un avvenimento così eclatante come un suicidio può avere influenze molto negative, portando altre persone con gli stessi istinti autolesionisti a scegliere la morte invece della vita. A Poggioreale era già accaduto nell’estate del 2018 quando tre carcerati si tolsero la vita nel giro di pochi giorni. Analoghi episodi sono avvenuti in altri istituti della penisola. È un fenomeno difficile da prevenire, anche perché spesso coinvolge individui che prima di allora non avevano mai manifestato intenti suicidari.

Bisogna avere il coraggio di dire che il sistema carcere così com’è non funziona più. Non produce sicurezza e difficilmente cambia le persone.

C’è bisogno di un carcere diverso, perché non è la galera dura e disumana a suscitare il desiderio di cambiare vita. E mai ci potremo rassegnare alla tragica conta di chi non ha retto il peso del proprio fallimento e viene risucchiato e travolto dai propri fantasmi.