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di Sofia Silingardi

Il Resto del Carlino, 4 settembre 2023

Silvia Panini, modenese di 25 anni, è laureata in scienze politiche: “L’obiettivo è gettare una luce su luoghi e persone della città emarginate. Tra i detenuti c’è chi si è commosso e chi prova ancora tanta rabbia”. “Accendere una luce sui luoghi e, soprattutto, gli abitanti della città. Eventi, turismo, commercianti, fino ad altri aspetti della città di cui non si parla spesso, come il carcere”. Così Silvia Panini, modenese di 25 anni, una laurea in scienze politiche in giro per l’Europa e l’inizio di una carriera nella filantropia, ha deciso di raccontare in formato podcast, modalità oggi molto amata di raccontare in formato audio, il Sant’Anna di Modena.

Com’è nata l’idea?

“Il progetto Spot Modena è nato da alcuni ragazzi con lo scopo di gettare una luce su luoghi e persone della città. Andrea De Carlo, fondatore e mio caro amico, mi ha chiesto di fare un podcast sul carcere della città, non solo su chi sta scontando una pena, ma anche su chi ci lavora e volontari. Il podcast si chiama ‘Modena Peoplè perché l’idea è quella di far parlare le persone di Modena, tra cui c’è anche chi vive il mondo del carcere, di cui spesso ci si dimentica, in quanto qualcosa ai margini della città, anche geograficamente”.

Come ha fatto?

“Mi sono buttata a capofitto in questa avventura e la prima persona che ho incontrato è stata Paola Cigarini, storica volontaria del Sant’Anna, che mi ha messo in contatto con chiunque orbiti intorno al carcere. Ho conosciuto associazioni di volontari, avvocati, ma anche e soprattutto, grazie a dei don che li ospitano, persone che hanno vissuto o vivono in carcere”.

Com’è stato?

“È stato interessante ma anche difficile mettersi in contatto con gli ex detenuti. Il podcast è fatto di tre puntate, ciascuna dedicata a una persona ed è stato già un successo riuscire a trovare tre persone che volessero parlare. Inoltre, non essendo né psicologa né giornalista d’inchiesta, non avevo che conoscenze nozionistiche sul carcere limitate a quanto raccontato nelle news. Avevo un’idea di quello che poteva essere il carcere, ma non conoscevo il carcere di Modena, che ha peculiarità soprattutto in seguito alla rivolta del 2020, e soprattutto non avevo idea di cosa significasse vivere in carcere”.

Cosa l’ha colpita di più?

“Parlare direttamente con chi in carcere ci ha vissuto, è stato come togliere un velo a un’idea che avevo del carcere - come se avesse fatto luce su molti più dettagli che non conoscevo. Sentire l’emotività di chi ha vissuto il carcere: c’è chi si è commosso, chi prova ancora tanta rabbia. Ma c’era anche la gioia di poterlo raccontare, forse anche per evitarlo ad altri. Purtroppo è un tema di nicchia, che si conosce e si tende a voler conoscere poco, speriamo di aver dato la possibilità di conoscerlo in una maniera abbastanza fruibile”.

Che immagine emerge del carcere?

“Una delle storie riguarda una persona che lo ha preso come un momento di trasformazione di cui aveva bisogno per espiare la colpa. E quindi lui ne è uscito una persona nuova. Gli altri due racconti riguardano invece persone che in carcere ci sono finite in maniera molto meno ‘conscia’, dettata anche dalle loro condizioni socio-economiche. C’è carcere e carcere, c’è chi lo vive rendendosi conto di quanto commesso e cercando di cambiare. E poi c’è chi ci finisce per condizioni strutturali intorno a sé e delinque perché non ha altro modo per mangiare. Se queste persone, una volta fuori, non trovano un supporto socio-economico per non delinquere più, continueranno a farlo. Una grande riflessione sarebbe da affrontare: se il carcere sia effettivamente il modo per riabilitare una persona”.