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di Donatella Ventra*

Il Riformista, 9 novembre 2022

Leggendo qualche giorno fa la relazione del Garante relativa alla situazione delle carceri in Campania nel primo semestre 2022, non ho potuto fare a meno di soffermarmi sui dati allarmanti ivi riportati, che hanno finito per stimolare le brevi riflessioni che vi allego. A colpire in modo particolare la mia attenzione è stato non solo il numero dei suicidi, in drammatico aumento già rispetto all’anno passato, ma anche e soprattutto il dato relativo ai detenuti tossicodipendenti. Nella relazione infatti, viene evidenziato che al 30 giugno dell’anno in corso i detenuti risultati con una diagnosi di tossicodipendenza presenti nelle carceri campane erano 1150, a fronte di una popolazione detenuta che complessivamente ammontava a 6853 presenze.

Questo il dato locale, mentre a livello nazionale, al 31.12.2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti tossicodipendenti (28,1% del totale) per la quasi totalità di genere maschile, (96 %), e per un terzo di nazionalità straniera (33%). Il dato è importante, perché conferma una tendenza già registrata negli anni precedenti, che indica che mediamente nel corso degli anni almeno un detenuto su quattro è tossicodipendente, mentre uno su tre si trova in carcere per delitti di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. La tendenza ormai consolidata nel tempo, rivela la sussistenza di significativi aspetti critici che rendono molto problematica la gestione dei detenuti tossicodipendenti, i quali sempre più difficilmente riescono ad accedere alle misure alternative ed in particolare alla misura che è principalmente a loro riservata, ovvero all’affidamento in prova terapeutico previsto e disciplinato dall’art.94 D.P.R. 309/90. In sintesi, la percentuale dei detenuti tossicodipendenti rimane alta e soprattutto difficile da abbattere, nonostante le numerose dichiarazioni programmatiche provenienti da tutti i soggetti coinvolti a livello istituzionale nella gestione della problematica, e sarebbe utile a questo punto soffermarsi ad analizzare le possibili cause di questo fenomeno.

Certamente va fatta una doverosa premessa: la tossicodipendenza è una condizione patologica molto difficile da superare, e come tale, necessita di un percorso lungo e sofferto; spesso le probabilità di successo di un percorso alternativo al carcere possono dipendere da un insieme di fattori anche mutevoli, quali ad esempio l’ambiente socio-familiare di provenienza, l’esistenza o meno di una valida rete familiare di supporto, le caratteristiche di personalità del soggetto stesso; cioè fattori per lo più “esterni” sui quali il sistema ha scarsa possibilità di incidenza. Al netto dei fattori variabili però, va evidenziato che il nostro sistema penitenziario prevede in astratto degli strumenti teoricamente validi, ma che all’atto pratico funzionano poco o male, creando un vero e proprio scarto tra il dettato normativo e la realtà penitenziaria. In particolare, il D.P.R. 309/90 o Testo Unico sugli stupefacenti, dedica due disposizioni importanti alla gestione penitenziaria dei detenuti tossicodipendenti: gli artt. 95 e 96. Il primo di essi, prevede la creazione di istituti specificamente destinati ad accogliere detenuti tossicodipendenti come sono oggi gli ICATT; il secondo invece, intitolato “prestazioni sociosanitarie per tossicodipendenti detenuti”, prevede la necessità di prestare assistenza e/o di prevedere specifici percorsi trattamentali dedicati ai tossicodipendenti in qualsiasi contesto detentivo.

Partiamo dall’analisi del primo strumento, cioè gli istituti specializzati. Gli ICATT (ovvero istituti a custodia attenuata per i detenuti tossicodipendenti) si caratterizzano appunto per una custodia attenuata (che in concreto significa che i detenuti hanno la possibilità di circolare fuori dalle celle liberamente nella sezione a cui appartengono, ad eccezione della fascia oraria notturna) abbinata ad una maggiore offerta trattamentale finalizzata ad un approccio quasi di tipo “terapeutico”. Gli ICATT sono una vera e propria risorsa, e ne parlo con cognizione di causa perché nel corso della mia attività professionale ho avuto la preziosa opportunità di occuparmi di ben due ICATT: quello di Lauro quando ero nella sede di Avellino, ed oggi, presso la sede di Salerno, dell’Icatt di Eboli. L’istituto di Lauro oggi non esiste più come ICATT, essendo stato riconvertito in un ICAM (istituto a custodia attenuata per detenute madri), ma superando il dato all’attualità, in ogni caso i due istituti presentano caratteristiche strutturali ed organizzative molto simili, quali la presenza di ampi spazi verdi destinati ad attività ricreative o trattamentali, una buona organizzazione delle attività con finalità rieducativa, ed infine una buona integrazione con il territorio di appartenenza; fattore, quest’ultimo, molto importante nell’ottica del follow-up e del reinserimento sociale.

Tuttavia, si tratta di istituti di piccole o piccolissime dimensioni, in quanto destinati ad accogliere solo detenuti con un basso livello di pericolosità, e sulla base della domanda- non altissima- presentata da detenuti ristretti in altri istituti a regime detentivo ordinario. Basti pensare che l’ICATT di Eboli oggi ospita soltanto 38 detenuti, a fronte delle 429 presenze registrate presso la casa circondariale di Salerno, e delle quali, ben 163 sono appunto tossicodipendenti (stando sempre ai dati della relazione). In sintesi: visto il target molto specifico al quale sono riservati, questi istituti, che potrebbero rappresentare davvero un’ottima occasione di allontanamento dal circuito detentivo ordinario e di conseguenza anche da tutte le problematiche relative alla diffusione ed alla più facile reperibilità di sostanze stupefacenti che in genere caratterizzano quest’ultimo, finiscono invece per rappresentare una risorsa positiva molto residuale e quindi non in grado di fornire una risposta generalizzata.

Passando all’analisi del secondo strumento, ovvero i programmi specifici che dovrebbero poter trovare attuazione anche negli istituti a regime detentivo ordinario, generalmente di più grandi dimensioni, ebbene, anche qui il rilievo critico è inevitabile: non si può negare, infatti, che il sovraffollamento carcerario, fenomeno ormai endemico e strutturale e con un trend in crescita costante, al quale per converso si contrappongono gli esigui strumenti dell’amministrazione penitenziaria, caratterizzata da una cronica carenza di personale e mezzi, non consente di effettuare una reale ed efficace presa in carico dei numerosi detenuti tossicodipendenti, o almeno non di tutti. Su altro fronte speculare, si è assistito negli ultimi tempi ad un notevole incremento della diffusione di sostanze stupefacenti abusivamente introdotte all’interno delle carceri; incremento che il personale di Polizia Penitenziaria, anch’esso ormai ridotto all’osso e costretto a lavorare assai spesso in condizioni veramente critiche sotto il profilo della sicurezza, non riesce purtroppo a controllare e soprattutto a prevenire.

Parallelamente, è andato aumentando anche il numero dei telefonini cellulari abusivamente introdotti; la criminalità dedita al mercato illegale all’interno dei penitenziari è sempre più agguerrita, e l’ultima novità sull’argomento sono i droni, attraverso i quali si riesce ad introdurre anche notevoli quantità di sostanze stupefacenti. Stando così le cose, il carcere non riesce più ad assolvere alla sua funzione fondamentale di preparazione dei detenuti ad affrontare un percorso alternativo alla detenzione finalizzato al recupero dalla tossicodipendenza, attraverso un programma in regime residenziale presso una comunità terapeutica o ambulatoriale presso il Sert territorialmente competente. E va anche considerato che poiché la preparazione al percorso esterno è un percorso non breve e soprattutto graduale, una apertura delle porte del carcere troppo anticipata per non dire frettolosa rispetto al naturale maturare delle cose, senza un reale lavoro sulle parti sane dell’io ed il rafforzamento della propria motivazione al cambiamento, rischia di produrre più danni che benefici, risolvendosi facilmente in una revoca della misura alternativa che peraltro, per espresso dettato normativo, non può essere concessa più di due volte.

È di vitale importanza allora che il carcere possa recuperare appieno la sua funzione più specificamente rieducativa, ma per far ciò occorre anche potenziarne i mezzi ed il personale a tutti i livelli, ed è seriamente auspicabile, a questo punto, che almeno una parte delle risorse del PNRR dedicate al penitenziario vadano in questa direzione, piuttosto che nella realizzazione di nuove strutture detentive. Non posso essere d’accordo infatti con chi ritiene di poter affrontare il problema del sovraffollamento carcerario costruendo nuove carceri; piuttosto vanno migliorate le condizioni di vita delle strutture già esistenti per rendere l’istituzione carceraria non come semplice strumento di segregazione di individui ritenuti più o meno socialmente pericolosi (con buona pace del sistema del doppio binario) né come contenitore sociale, ma come luogo di rieducazione, e di recupero della funzione che gli è propria. Se ciò accadesse, il carcere, oltre a poter rappresentare probabilmente l’unica vera occasione di riflessione sui propri errori, offrirebbe a chi ha sbagliato violando la legge una grandissima lezione di vita: che nulla di buono si ottiene nella vita senza sacrificio, e che la vera libertà non è tanto o non solo l’assenza di vincoli materiali, quanto piuttosto la libertà interiore di poter fare le proprie scelte di vita, che è un bene preziosissimo da conquistare gradualmente giorno per giorno.

*Magistrato di Sorveglianza