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di Paolo Delgado

Il Dubbio, 16 ottobre 2023

La guerra tra israeliani e palestinesi non dura da 75 anni, come molti hanno scritto in questi giorni. Prosegue da 122 anni, sanguinosa e costellata da occasioni perdute. Se si dovesse indicare una data d’inizio del conflitto sarebbe il primo maggio 1921, con l’esplosione dei “moti di Jaffa”, anche se in realtà già da due anni l’arrivo degli immigranti ebrei e il moltiplicarsi degli insediamenti sionisti avevano innescato, proteste, attacchi armati, scontri a fuoco.

I moti di Jaffa, che insanguinarono la città per una settimana, furono il primo episodio di sollevazione violenta della popolazione contro l’Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina. Le aggressioni e le risposte armate si ripeterono, su scala più vasta, nella settimana tra il 23 e il 29 agosto 1929. La potenza mandataria britannica, disponeva appena di una cinquantina di agenti: per alcuni giorni perse completamente il controllo della situazione. Pogrom e attacchi contro gli insediamenti ebraici si verificarono ovunque, gli ebrei si difesero da soli, alla fine della settimana si contavano centinaia di morti e feriti su una popolazione complessiva che tra arabi ed ebrei arrivava appena a un milione di abitanti.

Leader dei palestinesi era nel 1929 il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husayni. Alla testa del Supremo Comitato Arabo, da lui stesso fondato, avrebbe poi guidato la Grande Rivolta Araba del 1936-39. Sotto il mandato britannico la popolazione ebraica era passata dalle 57mila persone del 1919 alle 320mila del 1935. L’acquisto di terre da parte dell’Yishuv aveva reso la presenza degli ebrei anche economicamente influente.

Dopo mesi di violenze, in settembre, gli inglesi nominarono una commissione diretta da Lord Peel con il compito di analizzare le cause della rivolta e cercare una soluzione. Ai lavori corrispose una tregua sino all’ottobre dell’anno successivo, quando la Commissione concluse che non c’era alternativa a una spartizione. Agli ebrei sarebbe toccato comunque meno di un quinto della regione. Gli arabi respinsero la proposta, la rivolta riprese più violenta e sanguinosa di prima e proseguì per altri due anni, fino allo scoppio della guerra mondiale.

Nella Grande Rivolta si intrecciarono in realtà tre conflitti diversi: la rivolta contro gli insediamenti ebraici diventò subito anche ribellione araba contro il mandato britannico e tra i palestinesi si scatenò una vera guerra tra la fazione degli Husayni e quella, altrettanto potente, dei Nashashibi. Fu inseme una guerra tra ebrei e palestinesi, una guerra araba contro il Regno Unito e una guerra civile tra palestinesi. Anche gli ebrei si divisero, una fazione radicale lasciò l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebrea, per dar vita a un gruppo terrorista più radicale e feroce, l’Irgun.

Le ostilità ripresero dopo la guerra mondiale, prima e dopo la nascita dello Stato di Israele. Al momento del voto dell’Onu che sanciva la spartizione della Palestina, il 29 novembre 1947, la popolazione ebraica era arrivata a circa 600mila abitanti a fronte di un milione di musulmani e 150mila arabi cristiani. La spartizione assegnava al futuro Stato di Israele il 55% della Palestina, ma con all’interno il vasto deserto del Negev. Di fatto fra le tre regioni fertili a Israele era assegnata la Galilea, a quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese la Giudea e la Samaria. Gli arabi non accettarono la spartizione.

La guerriglia cominciò immediatamente dopo il voto dell’Onu per trasformarsi in vera e propria guerra dopo la nascita dello Stato ebraico, il 14 maggio 1948: 14 Stati arabi, molti dei quali si limitarono però a inviare in Palestina piccoli contingenti attaccarono il nuovo Stato appena nato. La guerra si concluse nella primavera del 1949 con la piena vittoria di Israele che occupò il 75% della Palestina ma perse il controllo su Gerusalemme est, inclusa la Città Vecchia con il Muro Occidentale. Per vent’anni agli ebrei fu proibito l’accesso al Muro. Le sinagoghe della Città Vecchia vennero distrutte o danneggiate. Sulla West Bank avrebbe comunque dovuto nascere lo Stato palestinese. Invece fu annessa dalla Giordania.

Per i palestinesi la guerra del 1948 è la Nakba, il disastro. Circa 700mila abitanti delle terre ora israeliane diventarono profughi, abbandonarono le loro case rifugiandosi nei campi profughi della Cisgiordania, della Gaza allora egiziana ma anche di Siria e Libano. Sulla cacciata dei palestinesi le due parti hanno ingaggiato per decenni una guerra di propaganda. Gli israeliani sostenevano che fossero stati gli stessi leader palestinesi a chiedere agli abitanti dei villaggi di lasciare le loro case dove sarebbero rientrati presto, dopo la sconfitta dei sionisti.

Episodi del genere ci furono certamente ma l’intenzione documentata di Ben Gurion, il premier israeliano e fondatore dello Stato, era liberare la futura nazione ebraica da quanti più arabi possibile: le distruzioni di centinaia di villaggi servivano a questo e raggiunsero l’obiettivo. I massacri di civili cominciarono allora. Il 9 aprile 1948 militanti dell’Irgun, organizzazione diretta dal futuro premier Menahem Begin, attaccarono il villaggio di Deir Yassin e ne massacrarono gli abitanti. Quattro giorni dopo un gruppo palestinese fermò un convoglio medico che portava rifornimenti all’ospedale di Hadassah, nella Gerusalemme assediata dalle truppe arabe sterminando medici, infermieri, malati e militari dell’Haganah di scorta.

Dopo la Nakba, per una ventina d’anni il conflitto fu tutto tra Israele e Paesi arabi, con il problema dei profughi agitato principalmente come arma propagandistica e senza alcuna rilevante presenza palestinese. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964, era solo un docile strumento nelle mani del dinamico raìs egiziano Nasser, al potere dal 1956. Al-Fath, fondata nel 1959 da Yasser Arafat e un’altra ventina di giovani militanti, era invece autonoma ma il suo obiettivo principale spingere i Paesi arabi a muovere contro Israele, per liberare l’intera Palestina. La guerra del 6 giorni, nel giugno 1967, mise fine a questa illusione. Israele dilagò conquistando Gerusalemme, la West Bank, Gaza, le alture del Golan siriane, l’intero deserto del Sinai.

Dopo la sconfitta tutte le organizzazioni palestinesi entrarono nell’Olp conquistandone la direzione. Arafat ne divenne il leader, Fath era l’organizzazione maggioritaria, seguita dal Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, di estrema sinistra, il cui leader militare, Wadi Haddad, fu l’inventore della strategia basata su grandi e spettacolari dirottamenti aerei e attentati nel mondo per impedire che sulla sorte dei palestinesi calasse il silenzio. Le organizzazioni più radicali dell’Olp, in parallelo con l’offensiva dei dirottamenti, cercarono nell’estate 1970 di rovesciare il sovrano di Giordania Husayn. La repressione, che in due mesi costò decine di migliaia di morti, è passata alla storia come il Settembre Nero. Cacciati dalla Giordania i palestinesi si rifugiarono soprattutto nel Libano, dove in pochi anni arrivarono a costituire una sorta di vero Stato nello Stato.

La campagna di attentati degli anni seguenti, condotta da Fath sotto le mentite spoglie della sigla “Settembre Nero”, dai terroristi di Haddad ma anche da una quantità di gruppi minori, proseguì per tutti gli anni 70. Mirava a costringere le potenze occidentali a occuparsi della questione palestinese e soprattutto voleva impedire ai Paesi arabi di riconoscere Israele in cambio della restituzione dei territori occupati, come suggeriva la Risoluzione 242 dell’Onu approvata anche da Israele. Documenti scoperti pochi anni fa dimostrano che fosse questo anche l’obiettivo della premier Golda Meir. L’Egitto, dopo aver restaurato l’onore militare perso nel 1967 con la guerra del Kippur del 1973, vinta da Israele ma con difficoltà molto maggiori di 6 anni prima, firmò comunque l’accordo di pace con Israele nel 1979. La campagna terrorista dei palestinesi impedì davvero di dimenticare la questione palestinese ma incise a fondo anche negli equilibri politici di Israele. Il Likud, guidato dall’ex leader dell’Irgun Begin, era stato sino a quel momento un insignificante partitino di estrema destra: nel 1976 vinse le elezioni e Begin diventò premier.

In Libano la presenza di uno Stato palestinese di fatto indipendente portò però al tracollo un equilibrio già fragilissimo: nel 1975 scoppiò una delle più lunghe e feroci guerre civili della storia, con infinite fazioni in campo tra le quali i cristiano-maroniti della Falange, alleati di Israele, le milizie sciite e druse, i palestinesi. Nell’estate 1982 Israele entrò in Libano con l’intenzione di cacciare i palestinesi e insediare al potere il capo della Falange, Bashir Gemayel. L’assedio di Beirut fu lungo e sanguinoso, la guerra del generale Sharon alienò a Israele le simpatie di buona parte del mondo, Italia inclusa. Il 19 agosto Arafat accettò di lasciare Beirut con tutti i miliziani palestinesi. Il 14 settembre Gemayel, appena eletto presidente, fu ucciso in un attentato organizzato dalla Siria con l’appoggio dei palestinesi. Il giorno dopo, violando ogni accordo assunto, le truppe del generale Sharon entrarono a Beirut ovest, circondarono i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, e permisero alle truppe falangiste assetate di vendetta di massacrarne per due giorni gli abitanti. Lo sdegno fu unanime nel mondo e anche in Israele. Sharon fu costretto alle dimissioni ma solo per essere nominato più volte ministro senza portafoglio nei governi del Likud, di cui diventò leader al posto di Netanyahu nel 1999.

Dopo la cacciata dal Libano l’Olp, con quartier generale spostato a Tunisi, era in ginocchio. Israele poteva quasi considerare vinta la lunga guerra con i palestinesi. La rivolta degli abitanti della West Bank e di Gaza, a partire dal dicembre 1987, colse di sorpresa tutti: non la aveva prevista la dirigenza palestinese, che sui Territori Occupati non aveva mai puntato, sbalordì Israele, convinta che i Territori fossero un’area pacificata e sotto pieno controllo, dove le israeliane andavano tranquillamente da anni a fare la spesa. La rivolta degli Shebab, senza altre armi che non le pietre, piegò per la prima volta Israele. Nel 1993 Arafat accettò di riconoscere Israele, passaggio essenziale per ogni accordo di pace. La Cisgiordania e Gaza ottennero l’istituzione di una Autorità nazionale palestinese con capitale a Ramallah, alla quale era delegato parzialmente il governo della West Bank e di Gaza.

Arafat e il premier israeliano Rabin si strinsero la mano di fronte agli occhi di un Bill Clinton soddisfattissimo. Avrebbe dovuto essere il primo passo concreto verso la creazione dello Stato palestinese e la pace: fu l’ennesima occasione perduta. Rabin fu ucciso da un estremista di destra. Le organizzazioni islamiste Hamas e Jihad islamica, con roccaforte a Gaza e contrarie all’accordo, iniziarono una campagana di attentati suicidi in Israele e Arafat non fu in grado o non volle tenerle sotto controllo. Lo Stato israeliano non fermò gli insediamenti in Cisgiordania, nonostante si fosse impegnato a farlo. Oslo diventò sempre più impopolare sia tra gli israeliani che tra i palestinesi.

Per evitare un fallimento ormai annunciato il presidente Clnton nel 2000, ultimo anno del suo mandato, organizzò a Camp David un vertice e convinse il premier israeliano Ehud Barak ad accettare la nascita di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme est. Arafat rifiutò l’intesa senza avanzare controproposte. Analisti e commentatori si divisero e ancora di dividono sulle rispettive responsabilità: i punti chiave di disaccordo furono probabilmente il rifiuto israeliano di accettare una piena “legge del ritorno” dei profughi palestinesi in terra israeliana, perché ciò avrebbe sbilanciato l’equilibrio demografico a favore della componente arabo-israeliana, e soprattutto l’intenzione di mantenere il controllo pieno sulla Città Vecchia di Gerusalemme. Arafat non volle essere il leader che aveva rinunciato alla Città Sacra. Col senno di poi quasi nessuno oggi nega che non accettare quell’accordo fu da parte del leader palestinese un errore esiziale.

Pochi mesi dopo il fallimento di Oslo Sharon fece la sua famosa e tragica “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, di fronte alla moschea di al-Aqsa, circondato da truppe armate. La provocazione innescò la seconda Intifada, detta “delle bombe”: cinque anni di attentati suicidi che insanguinarono tutta Israele, ai quali l’esercito israeliano rispose con repressioni durissime. Gli israeliani uccisi, quasi tutti civili, furono oltre mille. I palestinesi circa 5mila.

Eppure l’ultima occasione vera per la pace si aprì proprio alla fine di quella seconda Intifada, quando proprio Sharon, premier dal 2001, decise di accelerare il processo per la creazione dello Stato palestinese. Ordinò il ritiro completo dell’esercito e lo sgombro di tutte le colonie a Gaza. Lasciò il Likud per fondare un suo partito, Kadima la cui vittoria nelle nuove elezioni sembrava certa. Arafat era morto l’anno prima. L’accordo con la nuova leadership moderata di Abu Mazen sarebbe a quel punto stato a portata di mano. Invece, due mesi dopo aver fondato Kadima, Sharon fu colpito da un ictus e non sarebbe più uscito dal coma. Pochi giorni dopo, nelle prime e per ora ultime elezioni nei territori palestinesi, Hamas sconfisse al-Fath. Nel giro di due anni avrebbe sconfitto in una sorta di guerra civile l’Anp assumendo il totale controllo di Gaza. Con Israele in mano al leader di estrema destra Bibi Netanyahu e Hamas egemone a Gaza di pace non si è più parlato.