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di Sergio Rizzo

L’Espresso, 20 agosto 2023

Liberale, ma eletto con FdI. Ex magistrato, ma spesso in contrasto con i colleghi (e con le sue passate opinioni) da quando è nel governo Meloni. Ne denuncia le ingerenze, ma ha riempito il dicastero di toghe. Tra bocconi amari e scivoloni imperdonabili, ecco le due facce del ministro.

“Sono iscritto all’Associazione Luca Coscioni e credo che la vita sia un diritto disponibile del singolo. Credo che ognuno abbia il diritto di morire in pace e come preferisce”. Parola di Carlo Nordio, 76 anni da Treviso, ex magistrato e ministro della Giustizia del governo di Giorgia Meloni: liberale, ma eletto con Fratelli d’Italia. Nel suo caso i “ma” sono tanti. Così tanti da rischiare di diventare troppi. Il governo vuole la legge per far istituire il reato universale di maternità surrogata, “ma” l’Associazione Coscioni, cui il ministro rivendica con orgoglio l’appartenenza, è radicalmente contraria.

Nordio si professa - nella stessa intervista a Domenico Basso del Corriere del Veneto, dalla quale sono tratte queste dichiarazioni - “visceralmente nemico di ogni forma di dittatura” al punto da avere scritto un libro “sulle ragazze del Soe, che hanno organizzato la Resistenza in Francia e sono state uccise dalla Gestapo”, “ma” è stato eletto in un partito che tracima di nostalgici del Ventennio e sta in un governo la cui presidente fatica a pronunciare la parola “antifascista”.

Si potrà dire che in Italia non è poi così inusuale passare sopra alle convinzioni personali quando c’è di mezzo la ragion politica. Giusto. Se non ci fossero ben altri “ma” decisamente più pesanti, almeno per un magistrato considerato tutto d’un pezzo che, da quando ha la toga, non cessa di denunciare lo strapotere dei pubblici ministeri, le inefficienze della giustizia e la presunta incongruenza della carriera unica dei giudici.

“Nordio lamenta in continuazione l’ingerenza dei magistrati nel processo legislativo della giustizia”, ricorda Enrico Costa, figlio di quel Raffaele Costa liberale e pioniere ormai più di trent’anni fa della guerra agli sprechi pubblici. “Poi però”, aggiunge il parlamentare di Azione (partito di opposizione che, peraltro, ha avuto talvolta parole di apprezzamento per Nordio), “è lui stesso che alimenta quella ingerenza”. E fa il caso dei decreti delegati della riforma del Csm della precedente responsabile del ministero, Marta Cartabia, ancora da emanare.

C’è da rivedere il meccanismo anacronistico con cui si valuta il lavoro dei magistrati? E c’è pure da stabilire come si riduce il numero assurdo dei magistrati (200) che si possono collocare fuori ruolo per ricoprire altri incarichi istituzionali meglio pagati e soprattutto esterni da procure e tribunali? Roba indigeribile per il corpaccione della magistratura, che non ne vuole sapere. E così i decreti, che dovevano essere pronti entro giugno, slittano di altri sei mesi e vengono affidati a una commissione di 26 persone: di cui 18 magistrati. Con una decina di loro già fuori ruolo, che facendo parte di una commissione che deve decidere di tagliare i fuori ruolo, non sono esattamente nel campo dell’imparzialità.

Per non parlare della bozza che riguarda la revisione del sistema di valutazione dei magistrati, il 96 per cento dei quali oggi ha il bollino di bravo bravissimo. Dice che le “gravi anomalie” per cui un magistrato è passibile di valutazione negativa si producono solo quando c’è una “marcata preponderanza” di fallimenti della sua attività giudiziaria. Significa che per meritarsi una macchiolina sul curriculum un magistrato dovrebbe toppare almeno metà dei procedimenti. Complimenti.

La riforma Cartabia concede poi due anni per rivedere le nuove norme sul processo penale. E anche qui, affonda Costa, “ecco pronta una commissione ministeriale con più di 40 persone, di cui ben 29 magistrati”. Alla faccia del famoso rischio d’ingerenza…

Il succo è che un ministro-magistrato con il proposito di allontanare quanto più possibile i magistrati dal ministero ha invece rimpinzato il ministero di magistrati. Su Repubblica, Liana Milella ha dato conto lo scorso maggio dell’intenzione di ingigantire ancora il plotone dei togati fuori ruolo in servizio al ministero, nel tentativo di non perdere i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati alla giustizia. Anche perché - se è vero ciò che denuncia Costa, secondo cui dei 411 milioni destinati all’edilizia giudiziaria non sarebbe stato utilizzato nemmeno un euro - la situazione è tutt’altro che rosea. Per giunta, l’obiettivo della riduzione dell’arretrato, una delle condizioni principali poste dall’Europa per dare il via libera agli interventi in questo settore, sembra molto lontano dall’essere raggiunto. Soprattutto nella giustizia civile, dove a fronte di un abbattimento delle cause pendenti del 40 per cento, nel 2022 non si è arrivati che a un misero 6 per cento.

Così, per cercare di recuperare i ritardi nell’utilizzo dei fondi, ora si ingaggia un altro direttore generale in forza nello staff di Nordio, presumibilmente con i galloni da vicecapo di gabinetto. E siamo a quattro. Un capo e tre vice. Il capo si chiama Alberto Rizzo, magistrato e tecnico: manda avanti la macchina del ministero e i maligni sospettano che sia ormai sazio dell’esperienza. La vicaria è Giusi Bartolozzi e a lei spetta la responsabilità politica del gabinetto, anche perché, oltre a essere magistrata, è anche politica. Nella scorsa legislatura, infatti, era seduta alla Camera con Forza Italia. Sua una proposta di legge per trasferire il potere disciplinare nei confronti dei magistrati dal Csm a un organismo nominato in maggioranza dalle Camere, cioè dalla politica. Con Nordio c’è quindi una sintonia perfetta.

Il secondo vicecapo di gabinetto, Francesco Comparone, invece, è decisamente più in sintonia con il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ex giovane missino e figlio d’arte: il padre Sandro è stato deputato di An. È l’uomo forte del ministero, Comparone l’ha imposto lui. E questo la dice lunga sui rapporti di potere anche ai vertici del palazzone di via Arenula. Dove il peso del partito di Fratelli d’Italia è tutt’altro che marginale.

Per carità: Carlo Nordio è figura di grande prestigio nel centrodestra ed è stato eletto nelle liste FdI. Ma con il partito e l’apparato meloniano il magistrato che al tempo di Tangentopoli mise sotto inchiesta Massimo D’Alema e Achille Occhetto, guadagnando l’apprezzamento della destra, c’entra come i cavoli a merenda. E infatti la marcatura nei suoi confronti è sempre più stretta.

I bene informati dicono che volesse nominare Garante dei detenuti l’ex deputata radicale Rita Bernardini, già fra i fondatori dell’Associazione Luca Coscioni. Ma invano. Il posto dovrebbe andare a Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato forzista non ricandidato alle politiche con Coraggio Italia e traslocato prima delle elezioni nelle schiere di Giorgia Meloni. La solita storia.

Pure sulla inquietante vicenda delle notizie riservate sul caso Cospito - usate per attaccare la sinistra dal deputato meloniano del Copasir, Giovanni Donzelli, cui le aveva a quanto pare spifferate il sottosegretario meloniano Delmastro - ha dovuto masticare amaro. L’informativa al Parlamento era assolutoria ben oltre l’accettabile, per un magistrato della sua esperienza.

La stessa esperienza che avrebbe dovuto evitargli uno scivolone imperdonabile come quello del paragone fra i suicidi a ripetizione nel carcere di Torino, dove le condizioni di detenzione sono disumane, e quelli dei gerarchi nazisti Hermann Göring e Robert Ley. Pensando forse di chiudere così un’altra pagina vergognosa per la giustizia italiana. Sentite qua. L’ultima suicida alle Vallette, una nigeriana di 43 anni che si è lasciata morire di fame, era secondo Nordio “sotto strettissima sorveglianza”. Ma in questi casi, dice il ministro, “non c’è sorveglianza che tenga. Anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate nonostante avessero lo spioncino aperto 24 ore su 24”.

E c’è stato pure chi non ha mancato di sottolineare l’apparente contraddizione fra la sua riforma della giustizia appena presentata al Senato, che limita la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, e il decreto con cui il governo renderebbe invece più agevoli le intercettazioni a carico di mafiosi e terroristi. Contraddizione che a ben vedere, in effetti, non esiste. Mentre esiste un suggeritore del decreto governativo che, però, non è Nordio. Si tratta del sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, magistrato, ex deputato di An, potente alter ego di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.

Definirlo ministro-ombra della Giustizia sarebbe troppo. Ma quando Nordio ha proposto di riformulare con la sua riforma anche il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, da lui ritenuto troppo fumoso, è bastato il niet di Mantovano (“Ci sono altre priorità”) per far evaporare istantaneamente l’idea. Facile trarre le conclusioni.

Nella riforma dell’ex magistrato veneto - liberale e socio della Fondazione Casa dei liberali che porta il nome di Luigi Einaudi - resta l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Vero. Ma su quello Meloni & c. non hanno niente da dire. Quanto alla mitica separazione delle carriere, per cui il Nostro ha quasi perso la voce, siamo ancora sulla Luna.