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di Benedetta Bisaccioni

Il Dubbio, 13 aprile 2024

Si dice che i reati contro la persona siano più semplici da difendere sotto un profilo tecnico: nessuno si è mai posto il problema che, forse, sia il processo penale a non essere non all’altezza della complessità dell’essere umano. Un Codice Penale che esclude la rilevanza ai fini dell’imputabilità degli stati emotivi e passionali. Un Codice Penale, parametro sul positivismo, cioè di una dottrina medica ottocentesca già messa in crisi agli inizi degli anni 2000 con l’emergere, all’evidenza pubblica, di casi di disturbi di personalità sconosciuti alla dottrina medica citata. Un Codice scritto da un uomo di un’epoca che rifiutava l’emotività, riconosciuta solo al sesso femminile.

Un’epoca in cui la realtà carceraria non contava già dall’inizio del 2024 una trentina di suicidi, dovuti spesso a disturbi di personalità aggravati o provocati dalla detenzione stessa e dal sovraffollamento. I disturbi della personalità che non costituiscono malattie mentali secondo la nozione del Codice Penale o che necessariamente ledono l’aspetto cognitivo ma influiscono sui comportamenti, sull’umore e sulle percezioni, all’epoca odierna, sono talmente diffusi che perde il senso e la stessa rilevanza in punto di colpevolezza, mai riconosciuta se non parzialmente in certi limiti, ma che l’emergenza carceraria impone di considerare.

Qualora, infatti, i disturbi o i comportamenti disfunzionali non incidono sulla capacità di intendere e di volere o non siano sintomatici dello specifico reato, l’imputabilità può e dovrebbe essere considerata come capacità di pena - validi per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per la scelta di misure alternative o per scelte processuali differenti come il ricorrere agli istituti di giustizia riparativa. Discorso analogo per l’emotività che dà origine ai comportamenti: il comportamento, secondo tutta la psicologia cognitiva comportamentale, è determinato dall’emozione originata dal pensiero.

Si pensi infatti quanto sia centrale la paura, la quale si attiva come meccanismo di difesa dal pericolo e, quando è molto intensa sfocia, spesso, in comportamenti aggressivi. La paura che, nonostante l’art. 90 C. p., esiste già nel Codice e costituisce la base emotiva della legittima difesa e dello stato di necessità. Una complessità che rende sempre più necessario svolgere fin dal primo contatto con l’assistito un accertamento volto anche a capire lo stato emotivo per risalire al pensiero sotteso e causa del comportamento criminale. Un processo, di conseguenza, non soltanto volto all’accertamento dei fatti, sotto il profilo oggettivo e psicologico della fattispecie, ma anche luogo di comprensione dei comportamenti, nello loro e comune a tutti, complessità.

Soprattutto dinanzi all’evidenza del fatto di reato e della relativa colpevolezza dell’imputato, perché spesso la commissione del reato diventa l’occasione di salvezza di colui che lo ha compiuto, se posto nella condizione di comprenderlo. Un’evidente complessità che, al contempo, richiede soprattutto ai fini della tutela della persona e della sua fragilità, la necessaria presenza e l’aiuto di un professionista psicologo psicoterapeuta. Una figura ce dovrebbe essere messa a disposizione dell’avvocato in particolar modo quello di ufficio, considerando che è la figura che maggiormente assiste persone indigenti e non in grado di far fronte alle spese di un consulente tecnico di parte. Una figura a cui rivolgersi per valutare, in ipotesi di pericolosità sociale riconosciuta, misure alternative alla detenzione, o percorsi terapeutici idonei e alternativi alle Rems, attualmente insufficienti. Una figura necessaria a rendere soprattutto il processo più complesso pari alla complessità dell’essere umano: colui che viene giudicato, punito e rieducato o che muore.