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di Michele Smargiassi

La Repubblica, 30 settembre 2023

Con il suo nuovo libro, il fotografo racconta la malattia mentale in Africa e nel Paese di Basaglia: “Nessun intento di denuncia. volevo solo mostrare una umanità nascosta”. Il fotografo del lato oscuro della vita è un cinquantenne romano dal sorriso aperto e ottimista. Non diresti che Valerio Bispuri, fotografo dell’umanità nascosta, abbia passato anni della sua vita nelle galere sudamericane o nei manicomi africani. Ma anche italiani. La malattia mentale è l’ultimo continente che ha esplorato, in un lavoro durato anni. La mappa è ora un libro, Dimenticati, che difficilmente lascia indifferenti.

Una delle tue immagini mostra le gambe di un paziente psichiatrico legate al letto in una struttura italiana. Basaglia è passato invano?

“C’è una legge, in Italia, che autorizza ancora queste forme di contenimento. È molto discussa, certo. Ho esitato a inserire quella fotografia, ma se l’avessi esclusa avrei negato un dato di realtà. No, Basaglia non è passato invano, la sua riforma ha liberato dalla sofferenza inutile e dall’oppressione migliaia di vittime delle istituzioni totali. Ho visitato anche case-famiglia, piccole comunità, ho trovato belle esperienze. Ma la malattia mentale esiste, e in molti casi, anche qui da noi, è ancora invisibile, nascosta, negata”.

Più di cinquant’anni dopo Morire di classe, il libro in cui Franco e Franca Basaglia chiesero proprio alla fotografia di mostrare l’invisibile, tu fotografo torni su quei passi. C’è bisogno di un nuovo lavoro di denuncia?

“Nessuna denuncia. Vorrei che si capisse bene: io cerco un’altra cosa. Il mio non è un lavoro politico, non direttamente. Cerco umanità. Cerco di esplorare il mondo interiore di persone che nessuno ha piacere di frequentare. I dimenticati. L’ho fatto con i carcerati, l’ho fatto coi sordomuti…”.

Da quando i malati mentali?

“Ero a Buenos Aires per il lavoro nelle prigioni, che sarebbe diventato il mio libro Encerrados. Mi fu data la possibilità di entrare nel manicomio del Borda. Scoprii un mondo che ben pochi hanno visto”.

Quelle immagini sono nel libro?

“No. Mi lasciarono entrare solo per una settimana poi si stufarono di avermi fra i piedi. Una settimana è troppo poco. Avevo fatto pochissime foto”.

Perché poi hai scelto l’Africa?

“Lì è tutto estremo e difficile. La malattia mentale è una condizione riconosciuta, molto a fatica, solo da una decina d’anni. Anche le organizzazioni umanitarie hanno dato la precedenza alle epidemie, alle carestie, alle catastrofi, alle vittime delle guerre. Non era una emergenza visibile”.

In Italia abbiamo una storia di impegno, invece. Perché hai scelto di mescolare immagini africane e italiane? Vuoi suggerire che non c’è differenza?

“Non è un attacco al sistema italiano. Le condizioni sono molto diverse. Ma se avessi tenuto distinte le due realtà avrei dato l’idea di due generi di uomini diversi. Non è così. La malattia mentale è, nel fondo, la stessa ovunque. L’analogia che vedi è nella malattia, non nel contesto. A me interessa l’essere umano. In realtà questo lavoro avrebbe dovuto riguardare solo l’Africa. Ma dopo i primi viaggi tra Kenya e Zambia è scoppiato il Covid. Bloccato in Italia, mi è stato chiesto dall’Espresso un servizio sulla malattia mentale ai tempi della pandemia. Ho visitato le case-famiglia, gli Spdc, le Rems che sono le eredi dirette del sistema manicomiale, poi ho scoperto un mondo di piccole realtà nascoste, come i “repartini” psichiatrici delle carceri dove ci sono persone depositate lì, stranieri, senza famiglia alle spalle. Quel servizio è stato preso male. Ha sollevato polemiche che non mi interessavano”.

È In Africa, però, che hai incontrato il tuo eroe…

“Grégoire. Una persona unica. Non so neppure come definirlo… Un santo? Faceva il meccanico, ebbe disavventure, crolli psichici, recuperò, scelse di lavorare per i malati di mente. In Benin sono considerati una specie di demoni, alcuni vengono legati agli alberi e lasciati lì. Grégoire li andava a prendere per la strada, li portava nella sua comunità, una casa abbandonata. Non è uno specialista, ma ha un dono. Io l’ho visto: il più scalmanato, agitato, infuriato, lui riusciva a calmarlo con un tocco delle mani, con chissà quali parole sussurrate. Ho vissuto nella sua comunità, molti dei suoi assistenti erano stati suoi ricoverati. Un miracolo”.

Sembra voler dire che la scienza psichiatrica arriva fino a un certo punto…

“La malattia mentale è un continente vasto e sconosciuto. Tante persone se ne occupano, ma la soluzione universale non esiste. Ogni persona è colpita a modo suo, unico. Io ho cercato di esplorare quel continente”.

Cosa hai trovato?

“Due cose. Che la malattia mentale è la forma più assoluta di sofferenza. Il contesto conta fino a un certo punto, può scatenare, aggravare, ma qualcosa che è già lì, cristallizzato in una emotività, in un mondo inaccessibile. Seconda cosa: non si guarisce mai davvero. Si migliora, si può guadagnare una vita accettabile, trovare un posto nel mondo, ma non c’è mai una fine, qualcosa nel profondo ti accompagna sempre”.

La storia del rapporto fra fotografia e psichiatria è antica, e non sempre felice...

“È una storia di oppressione ma anche di liberazione. Prima di cominciare il lavoro ho parlato a lungo con Gianni Berengo Gardin, che con Carla Cerati realizzò quel libro fondamentale che hai citato. Dopo cinquant’anni ho ritenuto necessario tornare a vedere cos’è la condizione psichiatrica. La fotografia aveva abbandonato il campo. Alcuni fotografi hanno colmato il vuoto ma non in Italia: Raymond Depardon in Francia Alex Majoli in Grecia”.

Denunciare le condizioni del malato mentale ha voluto dire rischiare di costruire il cliché del “matto”, urlante, con lo sguardo perso, accasciato, con la testa fra le mani. Come hai affrontato questo rischio?

“Prendendomi tempo. Se un lavoro così lo fai in una settimana, il cliché è inevitabile. Ho passato ore a giocare a carte coi pazienti, a guardare la televisione con loro, senza fotografare. Amo il tempo non fotografico del mio lavoro. Mi permette di osservare con calma, di rendermi percepito, abituale, accettato. Non trovi solo foto di sofferenza nel libro: anche quotidianità, sorrisi, abbracci. Gesti. È incredibile quanto siano gli stessi in contesti lontanissimi. Fumare. Una certa ossessione per il cibo… C’è una specie di lingua dei gesti comune a tutti, un modo specifico di abbracciare, di sorridere, di guardare…”.

Il bianco e nero?

“Mi riconosco in una tradizione. In un linguaggio. Voglio che si capisca. Ammiro il lavoro dei grandi, Berengo, Scianna, cerco di aggiornare il loro modo di raccontare. Nella fotografia contemporanea, anche giornalistica, vedo troppa freddezza, un’attenzione assoluta al contenuto, al messaggio, e una assenza di emozione, di coinvolgimento. Il fotografo scompare. Ma a me le dita tremavano, quando facevo certe foto”.

Nella vita sei una persona solare. Da dove viene questa attrazione per il lato oscuro dell’uomo?

“A tredici anni ho letto Il conte di Montecristo. Una storia meravigliosa di privazione, oppressione, riscatto. Mi ha segnato: non riesco a non chiedermi che cosa c’è alla radice dell’ingiustizia, nel cuore dell’uomo. La mia serenità è uno schermo, mi protegge. In realtà dormo malissimo e soffro di incubi. Ma questo non conta, devo essere sereno perché altrimenti finisco per mettere troppo di me nelle mie fotografie, e questo non va bene”.