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di Vera Mantengoli

Corriere del Veneto, 7 settembre 2024

Lo stimolo del regista. Collaborazione con la Biennale. “Cerca il tuo sogno, non dividerlo con nessuno e fallo maturare. Trovalo prima che si spengano le luci della vita perché vivere senza un sogno significa vivere in un carcere”. Rimarranno scolpite nella memoria le parole di Pupi Avati che ieri, con estrema delicatezza, hanno raggiunto i detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore che lo hanno incontrato in una sala dopo aver partecipato a un corso con Michalis Traitsis, storico regista teatrale.

Entrato in punta di piedi, Avati ne è uscito carico di affetto e con un dono speciale, una canzone napoletana intonata per lui da un detenuto soprano. Il regista di 86 anni, alla Mostra del Cinema per presentare il suo ultimo lavoro “L’orto americano”, ha iniziato a raccontarsi in apparenza spaziando casualmente qua e là tra i suoi ricordi, strappando una risata dopo l’altra. Dopo poco è parso però evidente che il racconto aveva un filo conduttore, quello di trovare il proprio talento, di cercarlo a ogni costo e di coltivarlo, pretendendo di realizzarlo: “C’è un mio Io che osserva me stesinvecchiare e che prescinde dall’anagrafe ed è quello che mi ha educato a sognare - ha detto -. L’ho sempre tenuto dentro di me e non l’ho mai zittito”. Avati ha raccontato di come, anche quando tutto sembrava senza speranza, qualcosa accadeva e di come non si debba puntare al piano B, ma seguire imperterriti quello che sentiamo che esprime al meglio noi stessi. “Dopo aver visto 8 e mezzo di Fellini sono corso al bar Santa Margherita e ho detto ai miei amici seduti al biliardo, come Gesù ai suoi apostoli: ci proviamo anche noi?”. Avati ha ricordato di come all’epoca gli amici fossero un venditore di pesce, uno di verdure, un commercialista e un amministratore di condominio: “Uno sapeva suonare un po’ la fisarmonica, ecco era un musicista. L’amministratore aveva dimestichezza con l’arredamento, ecco era uno scenografo”.

Quello che avevano in comune era che tutte credevano in un sogno. Avati ha raccontato di quella volta che, al posto di un’attrice che aveva cercato e tanto atteso, era arrivata una sua amica che lui aveva malamente cacciato. “Ero disperato, ma quando ho visto che lei testarda aveva atteso ore al freddo in un bar davanti a dove giravamo, non ce l’ho fatta a mandarla via e le ho detto di tornare il giorno dopo. Quando ha recitato il monologo, sono rimasto incantato. Si chiamava Mariangela Melato”.

Il direttore del carcere Enrico Farina e il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco hanno ascoltato “il maestro”, annunciando una collaborazione sempre più stretta. L’intesa ha già portato tramite l’associazione Second Chance all’inserimento lavorativo di un detenuto in una ditta che lavora per l’allestimento della Mostra del Cinema, ma in futuro potrebbe concretizzarsi anche nella riqualificazione di uno spazio abbandonato del carcere in un teatro. “L’urgenza della Biennale è quella di rendere visibile l’invisibile perché sono convinto che tutti dovrebbero avere consapevolezza di questo luogo - ha detto Buttafuoco -. Nel carcere, nella malattia e nelle calamità si vede il cuore vero degli amici, il passaggio della misericordia”.