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di Emiliano Guanella

La Stampa, 11 agosto 2024

Ci sono luoghi che ti segnano per la quantità di volte che li hai visitati ma anche per l’intensità delle esperienze che hai vissuto. Sono arrivato a Caracas ad una settimana dalle elezioni presidenziali più importanti della storia recente del Venezuela. È il mio quindicesimo viaggio in questo Paese, ma l’atmosfera è più pesante del solito, una strana mescolanza di incertezza e speranza, di timori e coraggio. L’autostrada che dal mare ti porta in città è più vuota del solito. La benzina, che prima veniva regalata, oggi costa mezzo dollaro al litro, un’enormità in un Paese dove il salario minimo è di 3,6 dollari. E poi c’è la diaspora, l’esodo massiccio di chi è scappato dalla crisi che fustiga da tempo questa nazione. Secondo l’Onu sono emigrate 7.7 milioni di persone, il 22% della popolazione. Uno su quattro è partito, molti in America Latina, anche se sono sempre quelli che cercano di entrare via Messico negli Stati Uniti. I venezuelani sono ovunque, fanno gli autisti di Uber a Santiago del Cile o Buenos Aires, i camerieri a Quito, Bogotà, San Paolo, fanno di tutto a Miami o Madrid. Un pezzo di patria che se n’è andato, con le arepas e i ricordi, la rabbia e la tristezza.

Seguo il chavismo dal 2004, anno in cui l’opposizione cercò con un referendum di mettere fine al governo di Hugo Rafael Chavez Frias. Il comandante era acclamato dal suo popolo, forte dei piani assistenziali per i ceti popolari, finanziati dall’enorme rendita petrolifera. Le “missioni” bolivariane con i medici cubani, i supermercati a prezzi popolari, le organizzazioni di quartiere e molta coscienza di classe. Ricordo la mattina passata al popolare quartiere de La Vega, scortato dai “colectivos”, i gruppi di appoggio alla rivoluzione che col tempo sarebbero diventati il simbolo della repressione in borghese del regime. Chavez riuscì a neutralizzare tutti i tentativi, leciti e meno leciti, di rovesciarlo; scioperi, golpe, proteste. L’ultimo colpo di mano è stato il “presidente alternativo” Juan Guaidò, una storia da realismo magico sudamericano che non ha portato a nulla; oggi è anche lui emigrato, insegna Miami, fa politica solo via social media. Il potere, però, logora, soprattutto se perdi completamente il contatto con la gente.

Hugo Chavez è morto nel 2013, ma nel suo sistema esisteva già corruzione e arbitrarietà, con una forte presenza militare e una censura crescente. La crisi economica ha fatto il resto, provocata dalla caduta del prezzo del petrolio, la sanzioni ed una serie colossale di errori, come l’esproprio di diverse industrie private. L’attuale presidente Nicolas Maduro avrebbe fatto volentieri a meno di andare alle urne, ma ha dovuto rispettare gli accordi presi per ottenere l’alleggerimento delle sanzioni di USA e UE. Nel 2018 l’opposizione decise di non presentarsi per timori a brogli elettorali, questa volta ha deciso di esserci, con la leader Maria Corina Machado e il candidato ufficiale Edmundo Gonzalez Urrutia. La loro campagna è stata una corsa ad ostacoli. Hanno girato il Venezuela in auto perché nessuna compagnia aerea li accettava a bordo per paura di ritorsioni da parte del governo. Sono stati vigilati costantemente tanto che Maria Corina ha mandato parte del suo staff, sei persone in tutto, in asilo presso l’ambasciata argentina di Caracas.

I giorni che hanno preceduto il voto sono stati di massima tensione. Per strada solo la propaganda di Maduro, ma lo scontento rispetto al governo era dominante presso i ceti popolari. Non è una guerra ideologica, ma di pancia, cuore, ragione. Mentre Maduro invoca alla lotta contro l’imperialismo americano, nei barrios la gente fa i conti con i salari che non bastano, con l’acqua che c’è mezz’ora al giorno, la luce che va e viene. Su tutto, poi, la disintegrazione delle famiglie, madri sole, che non conoscono i loro nipotini nati all’estero. Mairin Reyes ha fatto di questo un’attività, creando l’impresa “Soluciono por ti” (Lo risolvo per te), che si occupa di svuotare ed organizzare gli appartamenti lasciati soli da chi è emigrato. La incontro in un appartamento a San Bernardino, i proprietari sono in Spagna dal 2019. Filma tutto, fa un inventario di foto, documenti, vestiti per poi ricevere istruzioni sul da farsi. “Sto molto attenta perché so quanto può essere doloroso tutto questo per chi è emigrato. Ogni oggetto conta, un piccolo vaso di porcellana può essere il ricordo del battesimo di un figlio, un certificato in un cassetto può servire per rinnovare un titolo di studio, una fotografia ingiallita è il ricordo della nonna appena deceduta”. Suo figlio vive da sei anni a Chicago, quando le chiedo come vede il futuro mi risponde come fanno molti altri. “Se il chavismo perde non sono sicura che mio figlio tornerà, ma sono certa che se Maduro verrà rieletto lui rimarrà negli Stati Uniti”. Visito una sezione del PSUV, il partito socialista. Mancano un paio d’ore al comizio di chiusura di campagna e tre militanti stanno controllando la lista dei vicini del quartiere iscritti al programma dei CLAPS, le borse di cibo date dal governo. Se non si presentano, si va a cercarli a casa; chi riceve riso e fagioli gratis è obbligato a manifestare per la rivoluzione. Airin ha 31 anni ed è cresciuta a pane e chavismo. “Maduro è all’altezza dell’eredità di Chavez, ha resistito all’embargo statunitense, alla pandemia, alla destra fascista. Vinceremo, il popolo è con noi”.

Atmosfera diversa a Las Mercedes, per l’ultimo bagno di folla di Edmundo Gonzalez. In piazza molti giovani e giovanissimi e molti anziani, lo specchio della piramide demografica stravolta dall’emigrazione. In prima fila i famigliari dei 300 prigionieri politici ancora in carcere, con un grande striscione con i loro volti. Assieme a loro Sairam Rivas, che conosce bene la mano dura del regime: era dirigente del movimento degli studenti quando nel 2014 fu arrestata e tenuta per cinque mesi nell’Helicoide, il carcere politico, suo padre è morto mentre lei era detenuta. “Maduro regge solo grazie ai militari, ma non può continuare così. Se faranno dei brogli saremo pronti a lottare”. #HastaelFinal (fino alla fine) è stato l’hastag dell’opposizione, ma la doccia fredda la domenica del voto è stata molto dura per tutti. Non hanno creduto ai dati forniti dal Corte elettorale che ha proclamato rieletto Maduro. Il giorno dopo moltissimi sono scesi in piazza, i giovani hanno distrutto le statue di Chavez, a Caracas hanno cercato addirittura di marciare verso il Palazzo presidenziale di Miraflores.

La risposta del regime non si è fatta attendere, con l’esercito, la polizia e i colectivos per strada. A Petare gli agenti hanno sparato verso le case da dove proveniva il suono dei cacerolazos, le proteste a suon di pentole e coperchi. Le proteste continuano, la ong “Foro Penal” parla di poliziotti che vanno a cercare a casa i ragazzi filmati per strada, migliaia gli arresti e diverse persone scomparse. Maduro ha rotto i ponti con diversi governi sudamericani, ha chiuso i collegamenti aerei ed espulso giornalisti e osservatori stranieri. La Machado chiama alla resistenza pacifica, ma la paura è tanta. Gli emigrati invitano i loro cari alla prudenza: “ Mandateci le denunce, le pubblichiamo noi sui social”. Il Venezuela è tornato a fare notizia, dividendo la comunità internazionale. Restare a Caracas è pericoloso per chi vuole informare, ma non si può smettere di raccontare quello che succede. C’è chi vede nella dura repressione l’ultimo colpo di coda di un regime agli sgoccioli e chi invece teme di diventare un nuovo Nicaragua o una nuova Cuba. Nessuna notte è eterna, ma il presente per il Venezuela è più cupo che mai.