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di Bonifacio Pignatti

L’Arena, 20 giugno 2022

“Sì come schiera d’ape, che s’infiora/una fiata e una si ritorna/là dove suo laboro s’insapora/nel gran fior discendeva che s’addorna/di tante foglie, e quindi risaliva là dove ‘l suo amor sempre soggiorna/”. Così, Dante, nel XXXI canto di Paradiso, per dire della schiera di angeli che dopo esser volati verso Dio con canti di gloria, tornano a sedere nella candida rosa, inebriati di quell’”Amor che move il sole e l’altre stelle”.

Simile a uno sciame d’api che una volta entrato nel fiore per attingerne nutrimento, torna all’alveare per trasformare il suo lavoro in miele. Così, i detenuti-attori del Teatro del Montorio nel loro “Tratto a libertade”, terza tappa del progetto “Dante in carcere” ideato da Alessandro Anderloni. Più che una performance “dimostrativa”, un’esperienza umana e spirituale di grande impatto emotivo sia per gli interpreti, che per gli spettatori ammessi alla messa in scena alla Casa Circondariale.

Un coro di anime vestite di bianco che intrecciano - attingendo una dall’altra - le proprie esistenze (quelle dentro e quelle fuori dal carcere) tra le pagine dell’Alighieri, prodigiosamente contemporanee, ed eterne come la vita che tutti (se lo vogliamo) ci attende. Là, dove la geniale (pur nella sua essenzialità) scenografia circolare di veli bianchi immersi nella canicola estiva e di tanto in tanto sollevati dagli attori intenti ad evocare quei piccoli e suddetti messaggeri di Salvezza “melliferi”, ci ha fatto idealmente sostare. Sostare ma mai fermare.

Tutti abbiamo camminato in questo spettacolo “illuminato” (fino all’ultimo verso della cantica), capace di toccare le corde di chi era entrato con fare schivo quanto quelle di chi si credeva senza più alcuna via d’uscita, (con)dannato per sempre alla sua condizione di recluso. Ma la forza della Commedia sta proprio qui: nel plasmare ogni esperienza terrena nel desiderio di elevarsi a conoscenze altre.

È così che, dal 2018, gli endecasillabi del Sommo Poeta, il condannato (e pure ingiustamente) l’esiliato, il rifugiato, risuonano nelle voci, nei corpi, ma anche nei ricordi biografici, di un gruppo di reclusi multietnico e multiculturale, che attraversata la “città dolente” delle proprie celle e risalito il monte del Purgatorio, è approdato al Paradiso, “a quella parola dantesca che qui risuona in modo grandioso - commenta Alessandro Anderloni, autore della drammaturgia insieme a Isabella Dilavello - in cui abbiamo cercato la nostra libertà”.