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di Laura Tedesco

Corriere Veneto, 13 dicembre 2023

I compagni di sezione di Oussama: la sua morte si poteva evitare. “Da tempo lamentava apertamente un grave disagio psicologico, eppure in carcere lo avevano lasciato completamente solo ed era stato gettato in una disperazione ancora maggiore tramite la reclusione nella sezione di isolamento”. Questo mettono nero su bianco, in una vibrante lettera-denuncia, i compagni di detenzione di Oussama Sadek, suicida a soli 30 anni.

“Da tempo lamentava apertamente e dichiaratamente un grave disagio psicologico, eppure in carcere lo avevano lasciato completamente solo ed era stato “gettato” in una disperazione ancora maggiore tramite la reclusione nella sezione di isolamento matricola”. Questo mettono nero su bianco, in una vibrante lettera-denuncia inviata alle autorità giudiziarie e ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria, i compagni di detenzione di Oussama Sadek, suicida a soli 30 anni nel pomeriggio dell’Immacolata in una cella d’isolamento all’interno del carcere veronese di Montorio.

Una casa circondariale, quella scaligera, che oltre a detenuti diventati tragicamente “celebri” alle cronache - su tutti il 22enne Filippo Turetta, che ha ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, e Benno Neumair, condannato all’ergastolo per aver massacrato i genitori - ospita oltre 500 reclusi a fronte di 350 posti “regolamentari”. Un penitenziario che sta facendo drammaticamente notizia anche per la recentissima scia di suicidi: addirittura tre in 28 giorni, a partire da Farhady Mortaza il 9 novembre, 30enne con cittadinanza austriaca e status di rifugiato; poi il 18 novembre Giovanni Polin, di 34 anni, nato in India, italiano di seconda generazione; infine l’8 dicembre Oussama Sadek, 30enne del Marocco a cui mancavano soli tre mesi alla scarcerazione.

Storie diverse, tre drammi distinti, “ma accomunati dal disagio esistenziale e dalla mancata assistenza sanitaria e psichiatrica in carcere”. Lo hanno denunciato al Corriere i familiari delle vittime, come Giulia Polin, sorella di Giovanni, e i parenti più vicini a Oussama, la cugina Nezha e il fratello Hatim, chiedendo di “fare chiarezza e indagare”. Un appello alla verità condiviso dall’associazione Sbarre di Zucchero, che parla di “insopportabile silenzio della direzione del carcere e del Garante dei detenuti”; una richiesta di “interventi rapidi” sostenuta dalla Camera penale di Verona, dichiaratasi “pronta allo stato di agitazione”.

Prese di posizione forti, a cui si aggiunge adesso, pesante come un macigno, la lettera-denuncia con cui i compagni di Oussama, detenuti con lui nella quinta sezione, corpo 3, del penitenziario scaligero, si appellano a Tribunale e Magistrato di Sorveglianza di Verona e al Dap del Veneto “perché si faccia chiarezza su una morte che avrebbe potuto essere evitata”.

Nel loro esposto, gli amici e compagni di detenzione del trentenne puntano il dito su “omissioni e mancata sorveglianza”. Descrivono Oussama come “una persona rispettosa, amata e benvoluta da tutti i compagni della nostra sezione, senza distinzione di razza, di etnia, di provenienza e di credo religioso”, e che “lamentava un grave disagio psicologico, fortemente aumentato da alcune settimane, e posto all’attenzione del corpo penitenziario di turno, che a sua volta lo aveva prontamente e ripetutamente segnalato ai responsabili sanitari”.

Sostengono i compagni di Oussama che i medici “non sono intervenuti nei tempi e nei modi necessari, tant’è che il disagio è divenuto per lui sempre più insopportabile, nonostante fosse risaputo e che vi erano già stati precedenti tentativi di suicidio, in particolare uno di rilevante gravità presso l’ospedale di Rovigo”.

Gli eventi sarebbero precipitati con l’inizio di dicembre: “Dopo una tardiva visita psichiatrica, durante la quale Oussama, sofferente e disperato, avrebbe avuto comportamenti aggressivi verso lo psichiatra, è stato rinchiuso in una cella di isolamento vicino all’ufficio matricola”, scelta questa che i detenuti indicano come “sbagliata e inspiegabile”. Nella lettera-denuncia, affermano che “Oussama era approdato nella sezione di isolamento nella giornata di martedì 5 dicembre su ordine proprio del responsabile sanitario psichiatrico, al quale per altro era stata sconsigliata tale ipotesi di isolamento in quanto era preferibile che rimanesse nella sua abituale cella nella nostra sezione dove poteva essere guardato a vista da noi detenuti”.

Per i compagni di sezione di Oussama, “si sarebbe potuto inviarlo presso un più adeguato reparto psichiatrico di ospedale o, alla peggio, presso l’infermeria psichiatrica del carcere”, dove una osservazione costante “avrebbe potuto salvarlo”. A parere degli altri reclusi a Verona, “la scelta di quella cella di isolamento” sarebbe stata tragicamente determinante: “Noi stessi detenuti senza titoli medici specialistici ci rendevamo conto del forte disagio emotivo di Oussama, come poteva confermare anche la polizia penitenziaria. Andava solo trattato e compreso diversamente, immaginiamo secondo i canoni della “buona prassi medico sanitaria psichiatrica” e se ciò fosse avvenuto non ci troveremmo oggi a piangere l’ennesimo compagno che nella disperazione ha fatto la peggiore scelta possibile, ossia la morte”. Una tragica accusa, un’atroce denuncia: “Non “bollate” questo ennesimo suicidio come un momento di debolezza e sconforto imprevedibile, perché quanto accaduto a Oussama era prevedibilissimo e si poteva evitare”.