sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Gianni Alati

Il Dubbio, 18 maggio 2023

Cinque minuti in cella per sperimentare la vita in carcere. Ecco la sfida che Il Dubbio lancia al Salone del Libro di Torino: dal 18 al 21 maggio tutti i visitatori avranno la possibilità di provare la “detenzione” nello stand allestito dal quotidiano e dal Consiglio nazionale forense (T138- Padiglione Oval), al cui interno è stata riprodotta una vera e propria cella. Uno spazio angusto, con tutte le limitazioni e le condizioni di vita tipiche di un ambiente penitenziario.

L’obiettivo principale dell’esperienza è promuovere la consapevolezza e stimolare il dibattito pubblico sulla necessità di riformare il sistema carcerario, migliorando le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena e promuovendo l’adozione di misure alternative. Oggi, come ha sancito anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, la gran parte delle carceri italiane è in condizioni inumane a causa del sovraffollamento e di un’edilizia penitenziaria del tutto inadeguata. Non è un caso che di anno in anno aumentino i suicidi tra i detenuti e tra gli stessi agenti di polizia penitenziaria, vittime gli uni come gli altri - di questo stato di degrado.

I “detenuti per un giorno” subiranno una perquisizione, e saranno invitati a indossare abiti abitualmente utilizzati in carcere. Entreranno nello spazio arredato come una vera prigione, rumori inclusi. Perché, come scrisse Piero Calamandrei, presidente del Consiglio nazionale forense dal 1946 al 1956, “bisogna aver visto il carcere da recluso”. Ad accompagnare i visitatori sarà una guida speciale: Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare da innocente.

Sorbara, 57 anni, a fine luglio 2022 è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa inesistente di concorso esterno in associazione mafiosa. In carcere ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, per poi vedersi concedere i domiciliari, prima di essere assolto anche dalla Cassazione.

“Ero in una cella dove contavo cinque passi per quattro, dove avevo solo l’acqua fredda, senza radio, con una tv che non si vedeva, un letto in ferro e un materasso impossibile per riposare - racconta oggi -. Ma gli agenti non potevano farci nulla. Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi. Dopo due settimane ho provato ad uccidermi. Ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita”.

“Io, recluso con le mie paure in 8 metri quadri”, di Marco Sorbara

Marco Sorbara ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente, di cui 45 giorni in isolamento. 23 gennaio 2019, ore 3.15 di notte. Suona il citofono: “Carabinieri”. Ho pensato subito che fosse successo qualcosa ai miei fratelli. Ma loro entrano in casa dicono che devono perquisire la casa. Chiedo perché, e loro mi rispondono: “Siamo venuti per lei, Sorbara”. Poi scendono in garage, in cantina, nella macchina. “Dobbiamo portarla in caserma”. Mia mamma urla, non capisce cosa stia succedendo.

Una volta arrivato in caserma, è il momento delle foto. Mi prendono le impronte digitali e poi mi portano in carcere a Biella. Un portone enorme si apre e poi mi si richiude alle spalle: è l’ultima volta che vedo le montagne. Mi portano in una cella, io aspetto. Dopo mi portano in un’altra cella, che si trova alla fine di un lungo corridoio.

Vengo spogliato completamente: succede così, ti tolgono tutto cintura, braccialetto, collana, lacci delle scarpe, e anche la poca dignità che ti è rimasta. Quindi mi portano in una cella di quattro passi per due. Sono da solo, ci sono dei ragni, è sporco, puzza. Ma non me ne frega nulla perché voglio solo uscire.

“Non è possibile”, penso. La testa non si ferma, mi sembra un terribile incubo, e invece è realtà. Poi diventa buio, passo la notte sveglio, non arriva nessuno. Sono da solo. Sento le celle aprirsi e chiudersi. Sento delle voci, sento chiacchierare. Sono spaventato, ho paura. E ho freddo: nella mia cella c’è solo un piccolo termosifone, una turca per fare i bisogni, un piccolissimo lavandino con solo l’acqua fredda, un letto in ferro, cementato nel pavimento, niente radio, niente televisione. Niente, niente, niente.

Un detenuto passa davanti alla mia cella e mi dice che assomiglio a Enzo Tortora, ma non capisco. Non riesco a mangiare nulla, mi danno due piatti in plastica e delle posate in piombo.

Il giorno dopo incontro un’educatrice. Non ricordo cosa mi abbia detto, ma sicuramente per lei sarò stato un delinquente come tutti gli altri. Rientro in cella d’isolamento e trovo una giacca, un paio di pantaloni, uno sgabello. Gli agenti di polizia penitenziaria sono gentili, non mi parlano, ma trasmettono umanità con lo sguardo. Mentre qui dentro è tutto disumano. Il giorno dopo, di pomeriggio, mi portano in un’altra zona del carcere, in una cella con muraglioni in cemento armato, da cui si vede solo il cielo: questa volta conto dieci passi per cinque.

Rientro in cella e mi dicono che posso acquistare dei biscotti, due bottiglie d’acqua. Mi danno uno straccio, una scopa e una spugna, così posso togliere le ragnatele e il sangue che è sul muro. Il dramma è pulire il bagno, mi viene da vomitare dallo sporco e dalla puzza, ma alla fine ho fatto un bel lavoro, mi dico: è servito aver fatto le pulizie nelle case con mia mamma.

Il tempo passa, ma non passa mai. Devo organizzarmi mentalmente, altrimenti impazzisco. Inizio con degli esercizi, che ho imparato facendo hockey su ghiaccio: tre serie di flessioni da venti ripetizioni, poi esercizi per le braccia e addominali. La mente naviga, la paura ti avvolge, sei da solo. Finalmente incontro l’avvocato, mi consegna un fascicolo di ben 920 pagine, che leggo rileggo e rileggo fino allo sfinimento. Ma su di me c’è poco. Assurdo.

Mi accompagnano in un’altra cella dove c’è una doccia, ma l’acqua è troppo bollente. Riesco solo a lavare calze, mutande e la canottiera. Arriva la cena: carote, wurstel, riso bollito. Ma non riesco a mangiare. Passo la notte senza dormire, faccio colazione con del tè. Non ho idea di che ora sia, o che giorno sia. So solo che sono dietro le sbarre, al freddo, in una cella piccolissima.

La sequenza si ripete. Leggo, penso, faccio esercizi e mangio dei mandarini. Mi danno tre coperte pesantissime, le avevo in caserma al militare. Dormo vestito, rimango sempre con gli stessi vestiti, giorno e notte, fa freddo. Faccio esercizi, balzi sul posto, flessioni. Perdo le forze, non ce la faccio più. Penso a chi è fuori, ai miei fratelli, a mia mamma, agli amici.

L’accusa contro di me è devastante, sono finito. Si avvicina un detenuto, nel corridoio di fronte alla porta a sbarre della mia cella, inizia a parlare, non capisco cosa stia dicendo, mi parla di omicidi, violenze, rapine. Non è il mio mondo. Passano i giorni ma non cambia nulla, il tempo non passa, non capisco, impazzisco. Perché tutta questa violenza? Mi danno un libretto su cui segnare la spesa per la prossima settimana: caffè, biscotti, dentifricio.

Poi c’è un rumore fisso, notte e giorno, che non potrò mai dimenticare: il suono del battere a macchina. Finalmente faccio una doccia, ma è bollente, vapore ovunque, è ustionante. Riesco però a farmi la barba, che bella sensazione. La mia vita è cambiata per sempre. Ripercorro la mia storia, le parole dette, li atteggiamenti. Penso: “Avrò fatto qualcosa di male?”. Non so rispondermi, non capisco. Mi contestano le parole. Perché sono in carcere, in isolamento?