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di Pietro Cavallotti

Il Dubbio, 6 marzo 2023

Dodici anni di processo penale per mio padre e i miei zii. Assolti. Poi la “prevenzione”: il loro patrimonio è stato considerato frutto del reato che non hanno commesso. Poi è toccato a noi figli. Si dice che le misure di prevenzione sono uno strumento indispensabile nella lotta alla mafia. Un’arma super efficace che tutto il mondo ci invidia. Con questa premessa (che sembra una presunzione assoluta) non ci può essere alcuno spazio per la critica.

Tuttavia, basta uscire dalle assemblee parlamentari e dai salotti di certa antimafia per rendersi conto che le cose non stanno proprio così. La storia della mia famiglia lo dimostra. Sulla base del nulla, mio padre e i miei zii venticinque anni fa sono stati arrestati con l’accusa di mafia, salvo essere assolti dopo un sofferto periodo di detenzione e ben dodici anni di calvario. Le accuse sono state smentite, non c’erano prove, non c’era niente.

Eppure, quel niente è bastato per confiscare tutto il loro patrimonio nel parallelo processo di prevenzione, durato altri diciassette anni. Il loro patrimonio è stato considerato il frutto del reato che non hanno commesso. Lo chiamano “doppio binario”. Ci sarebbe da ridere se solo non stessimo parlando di cose che hanno segnato per sempre la nostra vita. Quale che sia la logica (giuridica) delle misure di prevenzione, il risultato è che ti tolgono tutto: l’azienda, il lavoro e persino la casa.

La storia continua con il sequestro delle aziende che noi figli avevamo creato nel tentativo di rifarci una vita. Per l’accusa eravamo prestanome dei nostri padri (assolti). Durante il processo è stato escluso il trasferimento di beni e risorse ma l’accusa, anziché riconoscere l’errore, ha sostenuto che l’oggetto dell’attribuzione fittizia era l’esperienza lavorativa che i padri avevano trasmesso ai figli. La vera ragione per quale siamo stati travolti era l’avere imparato un lavoro!

Dopo circa otto anni di sequestro, l’azienda è stata dissequestrata. Peccato però che durante l’amministrazione giudiziaria era stata messa in liquidazione, riempita di debiti e svuotata di tutte le risorse. Non abbiamo avuto neanche il tempo per capire quale fosse la reale entità del danno, che il Tribunale ne ha dichiarato il fallimento.

In sintesi, siamo passati dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, che dovrà vendere ciò che rimane del patrimonio aziendale per pagare i debiti fatti dal suo predecessore. Ovviamente, i danni non li pagherà nessuno perché non è previsto alcun indennizzo nel caso di ingiusto sequestro. A questo punto qualcuno potrebbe commettere l’errore di spiegare il dramma della mia famiglia con la teoria dell’errore giudiziario, l’errore è sempre possibile, se solo tante altre persone non avessero subito lo stesso trattamento. Io credo che occorra modificare la legge per evitare che altre famiglie innocenti vengano distrutte. Qualche altro però potrebbe eccepire che la Corte costituzionale ha stabilito che le misure di prevenzione non sono in contrasto con la Costituzione. E allora perché tante lamentele da parte di avvocati, giornalisti illuminati e cittadini sfortunati che chiedono semplicemente giustizia?

Ci sono più ragioni. La Corte costituzionale, nel salvare le misure di prevenzione, ne ha considerato solo le finalità politiche che le dovrebbero giustificare, trascurando del tutto i reali effetti che si ripercuotono sulla vita delle persone. Si arriva a dire che la confisca ha una natura “ripristinatoria” e che l’effetto afflittivo è solo qualcosa di collaterale o comunque di poco peso nella bilancia dei valori in gioco. Cosa ci sia da “ripristinare” quando una persona non ha commesso alcun reato non è dato saperlo. Come non è dato sapere neppure come si possa spiegare ad una madre che viene buttata fuori di casa insieme ai suoi bambini che, nel ragionamento giuridico della Corte, il loro dolore è solo qualcosa di superfluo.

Si dice anche che il diritto di proprietà è un diritto di “serie B” e che perciò può subire limitazioni, fino ad essere compresso del tutto, come se una confisca non riguardasse, oltre al patrimonio, anche il lavoro, la libertà e la dignità stessa delle persone coinvolte.

Il giudice del sequestro è lo stesso che poi deve decidere la confisca e non può essere terzo e imparziale. La confisca può arrivare anche dopo un’assoluzione non per prevenire qualche reato ma per sabotare le sentenze penali quando queste sono favorevoli agli imputati. Di fronte a una confisca che si fonda su una motivazione illogica confermata in appello, ci si deve rassegnare perché non è possibile ricorrere in Cassazione per questo motivo.

Tutto questo si somma in un contesto in cui basta l’indizio di qualcosa che, nel caso della pericolosità mafiosa, non è reato. Indizi che peraltro non devono essere neppure gravi, precisi e concordanti. Le accuse dei pentiti non hanno bisogno di riscontri. Qui non valgono i princìpi di legalità e del giudicato, per cui un processo di prevenzione può essere aperto, chiuso e poi riaperto ancora, magari dopo l’introduzione di una nuova fattispecie che permette di confiscare con effetto retroattivo.

Efficienza o barbarie? E soprattutto: togliere tutto a una persona che non è mafiosa è lotta alla mafia o persecuzione? Una riforma del sistema dovrebbe avere ad oggetto tutti questi aspetti, nella ritrovata consapevolezza che non ci può essere lotta alla mafia quando viene calpestato lo Stato di Diritto e, con esso, la libertà dei cittadini.