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di Andrea Pugiotto

L’Unità, 27 dicembre 2023

A dispetto dei suoi vastissimi poteri, è sconosciuta ai più. Nessuno in Italia marcerebbe in sua difesa, come accaduto per mesi in Israele. Il libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società” (Feltrinelli, 2023) narra quanto fatto per uscire da questo vicolo cieco.

Nelle democrazie, è la volontà dei più a decidere: il pluralismo politico alimenta il dibattito e si riversa nel procedimento legislativo al termine del quale, però, ci si conta ed è la maggioranza a prevalere. Nelle democrazie liberali, invece, la volontà dei più non è onnipotente: a frenarne la tentazione egemonica è un delicato sistema di checks and balances a garanzia dei diritti, dell’eguaglianza, del pluralismo. Cioè a tutela della Costituzione. Laddove le istituzioni di garanzia manchino o siano neutralizzate, tutto precipita nell’ossimoro delle democrazie illiberali.

C’è un sensibile sismografo per rilevare se un Paese è saldamente ancorato alla sponda liberaldemocratica o, invece, va alla deriva autocratica: l’esistenza di una Corte costituzionale autonoma e indipendente dagli altri poteri. Dopo il 1989, l’introduzione nei paesi dell’Est europeo di una giustizia costituzionale testimoniava la loro transizione verso lo Stato di diritto. Così come la messa sotto tutela governativa delle relative Corti costituzionali è uno dei segnali di regressione democratica in Polonia e Ungheria. In Israele, per mesi le piazze si sono riempite a difesa della Corte suprema che una riforma governativa intende svilire. Accadrebbe lo stesso in Italia, se la maggioranza parlamentare controllasse - de jure o de facto - la Consulta?

Per il suo neo-Presidente Augusto Barbera, l’interrogativo tradisce l’”allarmismo di un costituzionalismo ansiogeno”. Le regole vigenti impongono lo scrutinio segreto e una maggioranza qualificata affinché le Camere riunite eleggano solo un terzo dei 15 giudici costituzionali: dunque, “la Corte non può occuparla nessuno”. Giuridicamente, Barbera ha ragione. Ma non ha torto chi segnala allarmato che all’attuale maggioranza di governo (349 parlamentari) mancano solo 11 voti per raggiungere il quorum richiesto dopo il terzo scrutinio (i 3/5 dei componenti l’assemblea, pari a 360 voti) E sarà proprio questo Parlamento ad eleggere, entro un anno, 4 giudici costituzionali.

Ecco perché i meccanismi procedurali non bastano. La difesa delle Corti costituzionali deve radicarsi nella consapevolezza diffusa circa il loro ruolo nel sistema: “Tocca ai cittadini vigilare affinché i Governi non si approprino delle loro Corti e, per questa via, dei loro diritti”.

Illusorio programma, verrebbe da dire. A dispetto dei suoi vastissimi poteri, infatti, la nostra Corte costituzionale è sconosciuta ai più. Lo dimostra un semplice test: quanti saprebbero declinare le generalità dei suoi giudici? Di altri (per dire: il sindaco, l’insegnante dei nostri figli, il proprio medico di fiducia) pretendiamo a ragione di conoscere tutto. Viceversa, di chi - per nove anni - decide con il suo voto sulle nostre libertà e sull’agire dei soggetti investiti di potere ignoriamo l’identità, figurarsi il curriculum vitae.

Altrove non è così. Negli Stati Uniti, ad esempio, le nomine alla Corte Suprema, tutte politiche perché fatte dal Presidente, sono pubblicamente esaminate da una commissione del Senato. Opinioni politiche, pregiudizi, atteggiamenti pubblici e privati, orientamenti scientifici dei candidati sono passati al setaccio, richiamando l’attenzione dei cittadini ben consapevoli dell’incidenza delle loro decisioni sulla propria vita quotidiana.

Nulla di ciò accade in Italia, dove la selezione dei giudici costituzionali avviene carsicamente. I membri della Consulta sono tali perché nominati (5 dal Quirinale) o eletti (5 dalle supreme magistrature, 5 dal Parlamento in seduta comune). Di ciò, i media danno sbrigativa notizia, raccolta e accolta per lo più distrattamente.

Ogni tanto qualche sentenza costituzionale guadagna la ribalta della cronaca, mescolando di volta in volta favorevoli e contrari. L’opinione pubblica finisce così per cadere nella sindrome della sineddoche: se una decisione non è condivisa, il dissenso travolge l’organo che l’ha pronunciata, accusato di agire politicamente. La parte prevale sul tutto e il saldo finale è comunque negativo. Ecco perché quella posta inizialmente è una domanda retorica: nessuno marcerebbe mai in corteo a difesa di un tribunale costituzionale percepito quale potere invisibile e imperscrutabile.

Il libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società” (Feltrinelli, 2023) narra, con autentica passione, quanto fatto a Palazzo della Consulta per uscire da questo vicolo cieco, pericoloso per tutti.

È il racconto autobiografico di una grande operazione d’intelligenza collettiva che, in cinque anni (2017-2022), ha rivoluzionato il rapporto della Consulta con la società civile. Un’azione corale capace di inventare qualcosa che, nelle forme attuali, non esisteva prima. Il catalogo è davvero ricco. Le nuove regole processuali tese ad allargare l’istruttoria, la partecipazione e il contraddittorio a soggetti terzi, e a trasformare l’udienza in un’interlocuzione vera tra giudici e avvocati. I comunicati stampa che accompagnano le sentenze più rilevanti, offrendone una sintesi chiara ed efficace. Il ricorso alla tecnologia (sito web, app di servizio, canali social) per favorire la comprensione di ciò che avviene all’interno di Palazzo della Consulta. I Viaggi dei giudici costituzionali (nelle scuole, nelle carceri) per “parlare non alla società ma con la società”. La libreria dei podcast, la mostra fotografica, il docufilm, il concerto in Piazza del Quirinale, quali occasioni per costruire una “solida mentalità costituzionale”. Quanto realizzato rappresenta “un esempio virtuoso di comunicazione multimediale inclusiva”. La Corte costituzionale, infatti, non parla solo ai chierici del diritto, ma a tutti: deve “conoscere e farsi conoscere”, vuole “capire e farsi capire”, obbedendo così a un “dovere dell’istituzione” cui corrisponde un “diritto del cittadino”, nel nome del quale la giustizia costituzionale è amministrata.

A suo modo, il libro è un inedito. Non sono mancati, in passato, scritti di giudici costituzionali sulla propria esperienza a Corte: memorie individuali, filtrate attraverso lo stile e il temperamento del testimone. Qui, invece, si racconta di un’esperienza collettiva che ha accompagnato almeno sei presidenze (Grossi, Lattanzi, Cartabia, Morelli, Coraggio, Amato) e l’intero collegio (sia pure con differenti gradi di adesione e coinvolgimento). Se ne narrano in dettaglio la genesi, gli ostacoli esterni, i dubbi e le riserve interne. Ne sono difese, convintamente, le ragioni di fondo in replica alle critiche di settori della dottrina. Si ricorda, opportunamente, come la policy comunicativa della Consulta si inserisca in una corrente transnazionale comune a molti altri tribunali costituzionali.

Felice è la cifra stilistica del libro: storia fatta di storie, alterna “il dentro e il fuori” Palazzo della Consulta, intrecciando il formarsi delle decisioni su questioni esemplari (il suicidio assistito, l’ergastolo ostativo, i figli delle famiglie arcobaleno, il patronimico, i referendum) con le modalità della loro comunicazione. Il tutto raccontato con scrittura chiara e non reticente: l’esatto opposto del gergo tipico della corporazione dei giuristi. In questo modo, medium e messaggio si fondono coerentemente: come la Corte raccontata, così il libro cerca e trova un linguaggio comune a tutti.

Arriva così a compimento un’esigenza che viene da lontano. Era il 23 aprile 1956 quando il suo presidente Enrico De Nicola, nell’udienza inaugurale, dichiarava il proprio impegno a far conoscere la Consulta e le sue funzioni “qui e fuori di qui”, perché “la nostra aspirazione è ottenere il rispetto e la fiducia di tutti gli italiani”. Molto ora è stato fatto, e bene. “Tornare indietro è impossibile”, scrivono gli autori, perché “comunicare non è (solo) una tecnica. È un’etica, una postura, una responsabilità”. Esatta previsione o wishful thinking? La risposta è affidata ai giudici costituzionali, attuali e futuri, e alla saggezza del loro presidente.