sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesca Mannocchi

La Stampa, 20 aprile 2024

Gli sfollati sono più di 90 mila hanno perso la casa e il lavoro e vivono in estrema povertà. Ma il loro esodo è stato oscurato dalla tragedia di Gaza. A Boustan non rimane più nessuno, l’ultima famiglia è venuta via ieri mattina a piedi, lasciando lì il bestiame. Anche Salwa Alomous ha fatto lo stesso, sei mesi fa. Viveva nella città di Boustan, Libano meridionale al confine con Israele. Quando, l’8 ottobre, Hezbollah ha cominciato a lanciare razzi in solidarietà all’attacco di Hamas contro Israele e Israele ha risposto bombardando il Libano, la preoccupazione e l’abitudine pesavano più o meno allo stesso modo. Per una settimana ha dormito sotto al letto con i suoi figli, mentre i genitori dormivano con le capre, nella stalla. Ogni volta che sentiva aerei da guerra o droni alzava il volume della radio per distrarre i bambini.

Poi la casa della vicina è stata colpita e la vicina è morta, e Salwa è scappata a piedi coi figli senza portare via niente. Gli anziani genitori hanno resistito un mese tra la stalla e i droni, poi è tornata a prenderli. Non è la prima volta che scappano. Già durante la guerra del 2006 erano stati costretti a lasciare Boustan, ma erano rimasti via poco meno di due settimane. Andandosene, aveva sperato che stavolta sarebbe stato lo stesso. Invece sono passati sei mesi e ora vivono tutti a Tiro nell’angolo di un’aula divisa con altre due famiglie, in una scuola che poche settimane dopo l’inizio degli scontri le autorità del Comune hanno riconvertito a rifugio per sfollati. La maggior parte delle loro capre è morta, il raccolto stagionale è perduto, la casa danneggiata. Nella scuola di Tiro ci sono poche ore di elettricità al giorno e va razionata, perciò all’interno è quasi completamente buio, i vestiti sono appesi alle finestre, c’è un bagno ogni cinquanta persone e per i pacchi di cibo bisogna aspettare gli aiuti umanitari internazionali, perché i soldi del governo scarseggiavano prima, figuriamoci in tempo di guerra.

Oggi per Salwa e per gli altri sfollati, le speranze di tornare a casa sono poche. Non si fidano di chi combatte, e non si fidano delle armi che tacciono, da un lato l’esercito israeliano, dall’altro Hezbollah, in mezzo un panorama di città abbandonate o distrutte. Oggi gli sfollati, solo in Libano, sono più di novantamila, molti lavoratori agricoli, coltivatori di olive, pastori. In tanti hanno perso sia casa sia stalle, un posto dove stare e uno che gli dava da vivere. Nel solo distretto di Tiro, secondo Oim, l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, sono quasi 30 mila. Al primo piano della scuola è stata attrezzata l’Unità di Crisi per gestire i nuovi arrivi dopo l’attacco iraniano contro Israele, e dopo la risposta israeliana di ieri.

Hai Mourtada dirige l’unità di gestione della crisi assieme ai volontari. Spiegano ai nuovi arrivati le pratiche per registrarsi, e come raggiungere il magazzino per prendere dieci litri d’acqua. Ha la mappa del confine meridionale del Paese davanti, la zona rossa, quella in cui la popolazione civile viene considerata sfollata e quindi destinataria di aiuti, si allarga di ora in ora. Se la situazione peggiorasse, nella sola Tiro arriverebbero almeno altre cinquantamila persone, non ci sono abbastanza risorse per quelli già arrivati, i volontari non possono garantire una distribuzione di cibo regolare, e sarebbe difficile sostenere un arrivo di massa.

Il fragile equilibrio di confine - Dal 7 ottobre l’esercito israeliano e il gruppo libanese hanno avuto scontri costanti, ma ora, dopo l’attacco iraniano contro Israele la guerra silenziosa sta prendendo le forme di una campagna militare più intensa. Una delle opzioni sul tavolo, anche dopo la risposta di ieri sulla base militare di Isfahan, è che Israele colpisca i proxy regionali dell’Iran, e Hezbollah è il più importante. La cronaca degli ultimi giorni è eloquente: lunedì Hezbollah ha rivendicato la responsabilità di una serie di esplosioni in territorio libanese che hanno ferito alcuni soldati della Brigata Golani israeliana. Secondo il gruppo, i combattenti per anticipare un’incursione israeliana, hanno disseminato l’area di ordigni esplosivi, l’Idf ha confermato i feriti, e un funzionario ha dichiarato al Washington Post sotto anonimato che le truppe si starebbero preparando per il fronte settentrionale. “Se prima dell’attacco iraniano pensavamo di avere tempo per occuparci di Hezbollah, ora il tempo scorre più velocemente - ha detto - la tolleranza israeliana nei confronti di Hezbollah sta per finire”. Il giorno dopo diversi attacchi israeliani hanno ucciso Ismail Yusaf Baz, il comandante del settore costiero di Hezbollah e Mustafa Shechory, colpito mentre guidava nel villaggio di Kfar Dounine. Shechory era uno dei leader dell’unità d’élite Radwan, comandante dell’unità missilistica del distretto occidentale, e ritenuto dall’Idf “responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di numerosi attacchi missilistici verso il fronte interno israeliano” dalle aree occidentali e centrali del Libano meridionale. Hezbollah, in risposta, ha attaccato con droni e missili la cittadina israeliana di confine di Arab al-Aramshe ferendo quattordici soldati. Subito dopo, l’aviazione israeliana è tornata a colpire il Libano a nord della città di Baalbek nella valle della Bekaa.

L’equilibrio della bassa intensità, dell’occhio per occhio, negli ultimi giorni è saltato e - come scrive Daniel Byman su Foreign Policy - “se Hezbollah ingaggiasse una guerra totale, andremmo incontro a una drammatica escalation: l’arsenale di oltre 100.000 razzi del gruppo fa impallidire quello di Hamas, e i suoi combattenti sono ben addestrati e agguerriti”. Per Hezbollah, il conflitto in corso è già più mortale di quello del 2006, quando il gruppo dichiarò di aver perso 250 combattenti. Dal 7 ottobre a oggi ne sono stati uccisi 270 che vanno ad aggiungersi a 60 civili. Uno scontro totale sarebbe molto problematico in termini di consenso per il gruppo: Hezbollah non ha il supporto della gente per una guerra contro Israele, tutti ricordano il 2006, sanno quanto un conflitto devasterebbe il Paese, le sue infrastrutture, la sua già fragilissima economia, e su questo anche Netanyahu a dicembre è stato molto chiaro: “Se Hezbollah insiste in una guerra totale, trasformeremo Beirut in Gaza”.

La crisi economica - Durante la guerra del 2006, l’aviazione israeliana distrusse 100 strade, 70 ponti, furono colpiti i principali porti marittimi e l’aeroporto di Beirut, 750.000 libanesi nella parte meridionale del Paese rimasero senza elettricità per la distruzione delle centrali elettriche. Trentatré giorni di guerra e tre miliardi e mezzo di dollari di danni. Allora, però, il Paese aveva un settore bancario e un sistema finanziario funzionanti, beneficiava del sostegno degli alleati del Golfo, come l’Arabia Saudita e il Kuwait, che nei due anni successivi alla guerra depositarono due miliardi e mezzo di dollari nella Banca Centrale per finanziare la ricostruzione.

Questa volta l’ombra del conflitto insiste su una situazione economica catastrofica: dal 2019 la moneta si è svalutata del 98%, le banche insolventi non permettono di ritirare completamente i soldi ai propri correntisti, perché non hanno liquidità sufficiente e l’80% della popolazione vive in una condizione di povertà. Il pacchetto di salvataggio da tre miliardi di dollari promesso due anni fa dal Fondo Monetario internazionale non è ancora arrivato, perché le riforme richieste - ristrutturare il settore bancario, introdurre cambiamenti fiscali - restano bloccate da clientelismo e corruzione endemica. E anche sugli aiuti esterni il Libano non potrebbe contare troppo. L’Iran soffre gli effetti delle sanzioni e potrebbe non avere risorse economiche per supportare il Paese nella ricostruzione, e gli stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, sono più restii a finanziare il Libano.

I primi a pagarne le spese, dall’inizio della guerra, sono le comunità agricole del sud. Hassan Alawy vive in una stanza del centro per sfollati di Tiro, arrivato qui da Beit Lif al confine con Israele, con la moglie e le tre figlie. Anche lui era un agricoltore, olio e tabacco, come la stragrande maggioranza della popolazione al confine. Ora non ha più niente, non vuole che la guerra precipiti, non sa di che sfamarsi e non sa dove andare quando la guerra finirà, se finirà. Ma una cosa la sa. Sebbene abbia perso la terra, il raccolto, l’unica fonte di sostentamento che aveva, sa di avere un nemico e lo dice anche quando i servizi di sicurezza della municipalità non sono nella stanza ad ascoltare che durante le interviste non si parli di politica: “Hezbollah - dice - difende il Paese dal nemico israeliano”.

Dall’altra parte della tenda che divide l’aula scolastica vive Mariam Ali Awada, è sola, anziana, faceva la maestra a Aytaroun e la parola nemico non vuole sentirla. “Smettila - grida - non abbiamo più una casa, un lavoro, più niente che ci sfami”. Mariam dice che l’unico nemico vero siano gli uomini che disegnano i confini, che gli uomini possono imporre una linea sulla terra, ma che da una parte e dall’altra della linea, su quella terra, ci sono gli stessi ulivi. Poi esce dall’aula, con un secchio di plastica per prendere l’acqua e la razione di cibo per la cena, non sa quanto a lungo sarà una sfollata e teme che il materasso a terra su cui dorme resterà il suo letto per molto tempo ancora. Alla fine di ottobre il Libano ha adottato un piano di emergenza che prevede, in caso di sfollamento forzato, un piano di evacuazione per un milione di libanesi per 45 giorni. Risposte all’eventuale crisi umanitaria di una guerra che nessuno vorrebbe, ma che tutti stanno preparando.