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di Marta Randon

vocedeiberici.it, 18 aprile 2024

“Mi vergogno di stare di fronte alla signora Agnese Moro”, ha detto con coraggio un giovane detenuto in terza fila. “Spero anch’io di essere perdonato”, ha aggiunto timidamente un altro ragazzo nella Casa circondariale di Vicenza. “Perdono è una parola scivolosa, non mi piace, preferisco il termine “ritrovarsi”, è più bello - ha risposto la terzogenita del presidente della Dc ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse -. Io e Grazia ci siamo ritrovate”. “Il perdono presuppone che ci sia qualcuno che concede qualcosa. Non c’è equità”, ha aggiunto Grazia Grena, militante nelle Brigate Rosse per una decina di anni. “Io voglio bene a Grazia. Incontrarla mi ha fatto stare meglio. I fantasmi sono spariti”. “Il segreto è accettare la parte peggiore di te e ripartire, io l’ho fatto” ha aggiunto ancora Grena.

Hanno alzato le mani, come a scuola, e sono intervenuti, discretamente, ma intensamente, hanno lasciato andare emozioni, dubbi, drammi interiori. Qualche lacrima ha rigato i volti. Una ventina di detenuti della Casa circondariale di Vicenza giovedì scorso ha incontrato Agnese Moro e Grazia Grena, entrabe 72enni, due anime belle che da anni girano l’Italia in lungo e in largo per parlare dell’importanza e della forza salvifica della giustizia riparativa. Vittima e carnefice che si incontrano. Mani che si sfiorano. Umanità che incontra altra umanità. Nella Casa circondariale la scorsa settimana si è parlato di ascolto e riconciliazione. Di accettazione di sé e dell’altro, di come la sofferenza di chi ha fatto del male possa essere simile a quella di chi quel male l’ha ricevuto. L’iniziativa è stata organizzata dalle volontarie di “Unfilocheunisce”, laboratorio sartoriale in carcere, all’interno del progetto “Storie di vita”. All’incontro era presente anche la neo direttrice 28enne Luciana Traetta.

Grena non è direttamente responsabile del sequestro di Moro e non ha ucciso, ma è stata protagonista di quella stagione di sangue. Ha scontato otto anni di carcere duro, l’ex art.90, oggi 41 bis. Negli anni Settanta lavorava come infermiera, la chiamavano “sorriso”. “I malati erano un po’ carcerati - ha raccontato -. Non avevano diritti. Cominciai un percorso vero di lotta di rivendicazione dei diritti dei dipendenti e dei malati. Scelsi la lotta armata. Vissi due anni in clandestinità prima dell’arresto”. Il primo spiraglio arrivò con l’abolizione dell’articolo 90: “Cominciò il dialogo, strumento che ci diede la possibilità di ragionare, di pensare quali erano le nostre responsabilità verso la società”. La svolta per Grena arrivò nel 1985 grazie ad un’intuizione del cardinale Carlo Maria Martini che fece entrare al San Vittore, dov’era detenuta, padre David Maria Turoldo e padre Camillo De Piaz. “Ci chiesero: “Perché?”. Il mio processo di cambiamento non cominciò nei periodi di isolamento, ma in quelli di riconoscimento e di presa di coscienza di parte della storia”. Grena uscì nel 1990, trovò lavoro in una libreria, poi in un Centro studi sociale. Nel 1991 nacque suo figlio: “Non sapevo come dirgli che ero stata in carcere, ci riuscii grazie all’associazione “Bambini Senza Sbarre” nata dal Gruppo Carcere Mario Cuminetti. Fu un passaggio dolorosissimo”. Per la vera rinascita ebbe però bisogno che Agnese Moro le chiedesse: “Perché?”. “Era il 2010. La mediatrice esperta Claudia Mazzucato mi invitò a partecipare agli incontri di giustizia riparativa. Rimasi senza fiato perché il passato tornava. Dovevo incontrare le vittime ed entrare in relazione con gli amici di un tempo che negli interrogatori avevano fatto il mio nome. Mi ritrassi, poi tolsi la corazza. Oggi so che la chiave è scoprire l’umanità dell’altro. Quando incontri il loro dolore, ti accorgi che è il tuo. E ti senti simile”.

Agnese Moro li chiama “amici improbabili”. Uno dei primi che incontrò fu Franco Bonisoli che il 16 marzo 1978 era in via Fani. Uccise gli uomini della scorta di Aldo Moro: “Si presentò a casa mia con una piantina, segno di vita - - ha raccontato Agnese -. Con noi c’erano tre mediatori”. “I fantasmi li puoi odiare, le persone no. Volevo sapere chi era lui adesso. Mi disse che in carcere prendeva i permessi per andare a parlare con i professori dei figli. Mi si aprì un mondo, scoprii il suo dolore che non era diverso dal mio. Fu una scoperta sconvolgente. Qualcosa mi disse che eravamo uguali. Soffrivamo entrambi, potevamo costruire ponti”.

“Se chiediamo di incontrare i familiari ai quali abbiamo fatto del male mentre siamo dentro veniamo strumentalizzati, lo Stato pensa che lo facciamo perché vogliamo uscire. Dobbiamo farlo quando siamo fuori” ha commentato uno dei detenuti. “Serve fiducia. E la fiducia nasce piano piano. Sono carni vive che si incontrano, è uno scandalo, improbabile, impossibile, eppure Agnese ed io siamo qui”, ha detto Grazia Grena.

Agnese Moro non ha respirato fino al 2010, anno in cui padre Guido Bertagna, gesuita, con sobrietà e delicatezza le chiese se voleva incontrare alcuni brigatisti. “Ero chiusa nel mio silenzio. Pensavo che questi incontri potessero offendere la mia famiglia. Dissi di no. Poi capii che padre Guido mi stava proponendo qualcosa che non conoscevo, avevo bisogno di qualcuno che guardasse al mio dolore. Ebbi fiducia. Prima incontrai persone come me. Vidi che respiravano. Il lavoro dei mediatori fu importante”.

L’ultima volta che Agnese vide il padre, l’uomo si stava preparando per uscire: “Era in bagno. “Ciao papà, io vado”. Lo rividi all’obitorio 55 giorni dopo. Durante il sequestro nessuno l’ha aiutato, poi, per il funerale, tutti lo volevano. Era gentile, prezioso, a tratti buffo, una cara persona”.

Agnese dei lunghi processi ricorda gli occhi dei giovani dentro la gabbia. “Mi sembrava che ridessero, che si prendessero gioco di noi. Non capivano niente di quello che avevano fatto. La mia mente era piena di fantasmi e fu così per tanti anni. Ero piena di scorie radioattive che mi facevano allontanare da tutti. Mi padre mi manca tantissimo, ma la possibilità di ascoltare mi ha cambiato la vita”, ha detto ai detenuti. “Io mi rivedo in quei ragazzi dietro le sbarre, ma ora sto malissimo”, ha detto un uomo appoggiato al muro nell’angolo. “Sapere di poter essere ascoltato e accettato mi dà grande speranza”, ha commentato un altro. Una voce dalla prima fila azzarda: “Che ne penserebbe suo padre del rapporto che ha costruito con la signora Grazia?”. La risposta di Agnese Moro è arrivata senza esitazioni: “Papà è contento, lo so”.