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di Daniela Padoan

La Stampa, 7 febbraio 2024

La presentazione del volume a San Vittore doveva essere il coronamento di un lavoro. Perché, come disse una detenuta di Rebibbia, la Carta è uno scudo che non sapevano di avere. “Questa mattina non siamo riusciti a ringraziare i detenuti del carcere di San Vittore e per questo svolgerò adesso l’intervento che avrei fatto di fronte a loro, come testimonianza di un sentire che non è stato possibile esprimere per ragioni più o meno ufficiali”, ha detto Donatella Stasio, giornalista e già responsabile della comunicazione della Corte costituzionale, parlando nella sala della biblioteca del Palazzo di Giustizia di Milano, dove nel pomeriggio di ieri si è svolta la presentazione del libro Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, scritto con l’ex presidente del Consiglio e presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Amato. Avrebbe dovuto essere la seconda presentazione della giornata. “Avrei detto che il carcere non è altro da noi, nonostante il muro di cinta. Avrei detto che intendiamo proseguire con i detenuti il lavoro di cultura costituzionale e di alfabetizzazione che è fondamentale per sentirci davvero parte della medesima comunità”.

Il muro di cinta di San Vittore è rimasto però impenetrabile. Il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), che dipende dal ministero della Giustizia, appena ventiquattr’ore prima dell’incontro ha comunicato telefonicamente e senza alcuna spiegazione che l’evento organizzato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano e dalla Direzione dalla Casa Circondariale non ci sarebbe stato.

Perché negare un incontro che era il coronamento di un lavoro condiviso, la continuazione ideale di quel “Viaggio della Corte nelle carceri” che aveva dato nascita, a San Vittore, a “Costituzione Viva”, il progetto formativo per i detenuti capace di aprire un dialogo e creare un legame tra gli autori e tutte le persone coinvolte in una comune riflessione sul carcere, i diritti, la democrazia, la Costituzione?

Le giustificazioni istituzionali addotte in seguito, goffe e poco comprensibili, sono sembrate un condensato di appigli burocratici, di sottovalutazione dell’apprezzamento che ha circondato l’esperienza dei giudici, di sgarbo istituzionale nei confronti di una figura di altissimo profilo come il presidente Amato dopo le aperte critiche al governo. “Un triste sapore, in parte di censura, in parte di incultura, in parte di formalistica burocrazia”, ha scritto l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, ma anche tentazione di mettere in forse lo spiraglio aperto - in un mondo dove nel solo mese di gennaio sono avvenuti quindici suicidi - dall’affermazione che la conoscenza delle leggi non deve essere materia di esclusiva competenza dei giuristi ma bagaglio culturale a cui tutti dobbiamo poter accedere per esercitare la cittadinanza e per significare la democrazia; tanto più chi ne è, per vari motivi, sospinto ai margini.

“Chi ha fatto l’esperienza delle carceri” ha detto con forza Giuliano Amato a Milano, “ha percepito, perché lì se ne accorgono, che la Costituzione, come ci disse una detenuta di Rebibbia, è uno scudo che i detenuti non sapevano di avere. In Italia la cultura costituzionale non è entrata nelle carceri e occorre fare di più per farcela entrare. Sta prendendo sempre più piede l’idea che in carcere si entri per restarci ed essere soltanto puniti, ma questo è contro la Costituzione italiana. Occorre che gli italiani accettino che ciascuno di noi è migliorabile, e che il carcere esiste per migliorare: non per farmi marcire lì, finché non avrò la fortuna di morire o di procurare a me stesso la morte”.

L’idea che il linguaggio debba essere capito è requisito essenziale di un sistema democratico, “perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Questo non significa che il popolo debba decidere le sentenze, ma le deve capire. Deve essere messo nelle condizioni di capire chi le emette, e chi le emette deve essere responsabile verso il popolo. E perché sia capita la cultura dalla quale vengono estratte le decisioni, è necessario che sia capita la Costituzione”.

Esiste un vocabolario personale, una melodia individuale, la cui metrica è la biografia di ciascuno. La voce individuale, che si può comprendere, l’accento di ogni persona che, disse il grande poeta caraibico Derek Walcott nel discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura, “sfida un concetto imperiale di linguaggio, la lingua di Ozymandias: biblioteche e dizionari, corti giuridiche e critici, chiese, università, dogmi politici, il lessico delle istituzioni”. Smontare il potere, renderlo traducibile, accessibile, è allora il vulnus che ha fatto chiudere le porte di San Vittore, e a novembre dello scorso anno, sempre allo stesso libro, quelle del carcere di Napoli?

“Siamo stati accusati di fare politica”, ha detto Amato ricordando le visite dei giudici costituzionali nelle carceri da cui ha preso vita il libro, “solo perché abbiamo osato spiegare la Costituzione ai detenuti”. Quella stessa Costituzione che la destra si accinge a cambiare, e che il presidente emerito della Corte Costituzionale, nella sua audizione in commissione Affari Costituzionali al Senato aveva difeso affermando che “l’elezione diretta del primo ministro è una alterazione degli equilibri di fondo del nostro sistema costituzionale, che incide negativamente sul capo dello Stato in relazione alla sua figura di garanzia unitaria”. Come recita la quarta del volume, “quando nel mondo soffia il vento di sovranismi e populismi, quando i diritti fondamentali vacillano e si aprono scenari di riforme, le Corti costituzionali sono l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche”.