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di Roberto Crepaldi*

Il Riformista, 6 gennaio 2024

Servono giudici prudenti nei giudizi, perché consapevoli della necessaria provvisorietà delle loro conclusioni. Voglio confessare. Quando mi è stato chiesto dai cronisti ho dato loro copia dei miei provvedimenti non più segreti, come prevede il codice di rito. L’ho fatto consapevole che li avrebbero potuti criticare, perché credo che si debba dare conto delle ragioni della decisione non solo al cittadino che vede limitata la sua libertà ma, quando vi siano motivi di interesse pubblico, all’intera collettività.

L’ho fatto consapevole che avevo cercato di esprimere in modo coerente e logico le ragioni della decisione, che avevo cercato di considerare le possibili obiezioni al mio ragionamento, le eventuali debolezze delle indagini ma anche che la mia decisione avrebbe necessariamente ignorato moltissimi elementi che la difesa avrebbe (prima o poi) fatto emergere.

L’ho fatto consapevole che avevo prestato attenzione a depurare l’ordinanza da ogni riferimento non necessario alla vita privata dei soggetti coinvolti e da giudizi non necessari su una persona - di solito l’indagato di turno - che conoscevo solo attraverso le carte delle indagini e che non aveva ancora potuto ancora difendersi.

Ipotizziamo che, a prescindere da tutto ciò, avessi autorizzato comunque l’accesso dei cronisti all’ordinanza e che fosse già in vigore la regola suggerita dal cd. emendamento Costa. Certamente i cronisti avrebbero potuto ottenere copia della mia ordinanza ex art. 116 c.p.p., leggerla e spiegare compiutamente all’opinione pubblica, chi fosse il destinatario della misura cautelare, in relazione a quali reati e sulla base di quali elementi d’indagine, pur senza citarne testualmente il contenuto. Certamente le eventuali manipolazioni della ricostruzione del giudice da parte dei cronisti avrebbero costituito un delitto contro l’onore e come tali sarebbero punibili.

Certamente la nuova regola non avrebbe scongiurato la “gogna mediatica” né tutelato la presunzione di innocenza: i cronisti avrebbero potuto in ogni caso riportare elementi (magari superflui per le indagini ma) interessanti per l’opinione pubblica, sintetizzare i contenuti di dialoghi privati e i miei giudizi sferzanti sull’indagato. Non sono i fatti a formare l’opinione pubblica sui processi: come scriveva Sciascia già nel 1987 innocentisti e colpevolisti non si ispirano alla conoscenza degli elementi processuali ma alle “impressioni di simpatia o antipatia”. Il danno all’immagine di chi incappi in un processo penale poi, non dipende neppure dall’esistenza di una misura cautelare o dalla citazione del provvedimento.

Abbiamo assistito a condanne definitive sui media quando ancora la misura non era stata richiesta e nonostante lo stretto riserbo mantenuto dagli inquirenti, perché i particolari sulla vita privata dell’indagato (e finanche della vittima) sono stati evidentemente veicolati in altro modo. Abbiamo avuto esempi, anche recenti, di pregevoli e istantanei riassunti di copiosi atti non pubblicabili (richieste di misura, appelli cautelari, informative di polizia giudiziaria, verbali di interrogatori), senza che nessuno abbia lamentato alcun limite alla libertà di informazione.

Il processo “di piazza” sfugge alle regole processuali e richiede necessariamente un mutamento di paradigma che stimoli lo spirito critico ed elimini la cultura del sospetto, che vede nell’innocente un “colpevole che l’ha fatta franca”; di abbandonare una concezione catartica del processo penale, vissuto come momento nel quale la società non si limita ad accertare eventuali responsabilità ma si libera del peso del crimine (magari con una pena esemplare); infine, di scongiurare qualsiasi strumentalizzazione delle indagini per indebolire un avversario.

E contro il dato culturale, mi pare, non servano emendamenti ma esempi: di pubblici ministeri, giudici e difensori scrupolosi, riservati e prudenti nei giudizi, perché consapevoli della necessaria provvisorietà delle loro conclusioni; di cronisti e intellettuali critici, anche sull’agire della magistratura, attenti a individuare possibili abusi; di uomini politici che non cerchino fortuna nelle disgrazie e nei processi degli avversari di turno. Di questo abbiamo bisogno, più che di un’ulteriore riforma del rito.

*Gip Tribunale di Milano