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di Giulio Sensi

Corriere della Sera, 5 settembre 2023

I centri di supporto, distribuiti in tutte le regioni, registrano un aumento delle richieste. Istat: più vittime reagiscono e chiedono aiuto. Ma le risorse sono ancora insufficienti. La solitudine fa male quanto le botte e le minacce: le rafforza, ne attutisce il rumore, affievolisce la speranza per le donne che ne sono vittima di uscire dall’isolamento e dalla spirale della violenza. I femminicidi, gli stupri, le aggressioni denunciate e raccontate sono solo una minuscola punta di un iceberg sotterraneo e nascosto con cui l’Italia non riesce ancora a fare i conti, nonostante che il sistema di protezione stia crescendo e si sia rafforzato: il numero telefonico 1522 antiviolenza e antistalking è sempre più utilizzato, esistono 373 Centri Antiviolenza (Cav) in tutte le regioni e 431 Case Rifugio, l’utenza è in continuo aumento, sempre più operatrici e volontarie sono in prima linea a sostegno delle donne che vogliono gettarsi alle spalle un passato fatto di abusi fisici e psicologici. I dati vengono raccolti dall’Istat e dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri che monitorano dal 2017 il fenomeno.

“L’indagine - spiega la referente della ricerca per Istat, Maria Giuseppina Muratore - rileva solo i numeri di quelle che hanno iniziato un percorso di uscita. La situazione sta migliorando: ci sono più denunce, più ricorso all’ospedale. Dal 2020 c’è stato un picco di ricoveri in codice rosa. I Cav sono gestiti da donne che credono fortemente in quello che fanno, lasciano libere le vittime di creare il loro percorso e le aiutano nella conquista di consapevolezza. Le operatrici hanno un’elevata formazione, i loro Centri sono radicati sul territorio e attivi con i servizi e la rete territoriale. Fare rete è cruciale, ma l’utenza è tanta e le risorse sono ancora insufficienti”.

“La protezione e la prevenzione - commenta Linda Laura Sabbadini, statistica, già direttrice centrale dell’Istat ed esperta sul tema - sono un punto nodale. Le donne sono sole di fronte alla violenza: il 63 per cento di quelle che vengono uccise non aveva parlato praticamente con nessuno di quello che stava subendo. E questo nonostante gli sforzi di tantissime altre persone attive sui territori. Ma le risorse messe in campo devono essere fortemente incrementate”. Quelle che decidono di farsi aiutare trovano sostegno e accompagnamento.

Francesca Maur è consigliera di DiRe, Donne in rete contro la violenza, che unisce 81 organizzazioni, 108 Centri che ascoltano più di 20mila donne ogni anno, gestiscono 62 Case rifugio e mobilitano quasi 3mila attiviste. I dati ufficiali dicono che si arriva ai Cav dopo essere usciti dalla spirale della solitudine, rivolgendosi principalmente ai parenti e agli amici, alle Forze dell’Ordine, servizi di pronto soccorso e ospedali. Nei Centri si trovano operatrici, psicologhe, avvocate pronte ad assistere. “La prima cosa che fanno i Cav - spiega Maur - è accogliere e ascoltare, senza giudicare. Viene fatta subito una valutazione del rischio che la donna possa subire recidiva ed essere ancora aggredita dal maltrattante. A quel punto parte un percorso di rielaborazione dei vissuti legati alla violenza che riguardano anche i figli, i quali possono subirla direttamente o indirettamente. Crediamo sempre alle donne, diamo loro fiducia. Nell’ottica di una restituzione di responsabilità, perché dentro la dinamica della violenza i maltrattanti tendono ad accusare le vittime di esserne responsabili”.

Uscire dalla spirale non è semplice: dopo anni di relazione, in presenza di figli, magari senza un lavoro e un alloggio, con vissuti particolarmente traumatici, le donne non sempre trovano la forza di costruire una nuova vita indipendente. “È fondamentale - aggiunge Maur - la distanza fisica dall’autore dei soprusi. Nei casi in cui ci sia bisogno vengono ospitate, anche con i figli minori, per alcuni mesi nelle Case Rifugio a indirizzo segreto dove possono entrare maggiormente in contatto coi loro vissuti”.

Sostenibilità e qualità - I Cav vivono prevalentemente di fondi pubblici, ma non sono ancora sufficienti e sono distribuiti in modo eterogeneo sul territorio. “Le realtà che riescono a retribuire le operatrici professionali - spiega Maur - assicurano più sostenibilità e qualità ai percorsi e garantiscono formazione continua. Anche la formazione che facciamo alle forze dell’ordine e alla magistratura dovrebbe essere rafforzata, così come gli interventi nelle scuole. È dalle giovani generazioni che può nascere e fiorire una cultura diversa”. Per Linda Laura Sabbadini le sfide sono tre. “La prima è lo sviluppo di una cultura del rispetto in tutta la società contro gli stereotipi di genere attraverso la formazione a scuola e di tutti gli operatori. La seconda è non lasciare sole le donne, rafforzando la rete e accompagnandole nel percorso di uscita. La terza è la difesa e la protezione per coloro che hanno scelto di rompere l’isolamento e quindi l’azione contro chi esercita la violenza”.