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di Salvo Palazzolo

La Repubblica, 14 agosto 2023

I racconti delle detenute del carcere romano di Rebibbia in un libro denuncia sul sistema carcerario italiano: “È un ambiente pensato per i maschi”. “Noi stavamo in quattro - racconta la giovane donna appena uscita dalla cella numero 8 di Rebibbia - ci muovevamo fra due letti a castello di colore celeste sbiadito, un tavolo, gli sgabelli, i pensili, un water e un lavandino che utilizzavamo sia per lavare i piatti che il viso”. Una sua amica, che di celle ne ha vissute tante durante la detenzione, si è sempre battuta per avere il bidet: “Il 60 per cento delle detenute italiane non lo ha, nonostante sia previsto dalla legge”, spiega. “E non è certo un lusso, vorrei ricordare, le donne sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria, soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene intima”. Ma nelle quattro carceri italiane che ospitano esclusivamente donne (599) il bidet continua ad essere un lusso. Così come nelle 44 sezioni femminili dei penitenziari dove si trovano le altre 1779. “Il carcere ha una struttura maschiocentrica, è questo il vero problema - dice un’altra detenuta che ha appena finito di scontare la sua pena - e le donne devono adattarsi”.

È un grido disperato quello raccolto dalla giornalista catanese Katya Maugeri, che ha incontrato alcune detenute uscite dal carcere romano di Rebibbia per un progetto di ricerca sulla vita delle donne dietro le sbarre. Ne è nato un libro (“Tutte le cose che ho perso”, appena pubblicato da Villaggio Maori edizioni) che è un atto d’accusa contro il sistema carcerario italiano. “Quasi dieci anni fa, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva attivato un apposito settore dedicato alla riflessione sulla detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete - viene denunciato - Di ciò non si è più avuta notizia: il progetto è stato completamente abbandonato”.

Sono le ex detenute a svelare un mondo davvero poco conosciuto: “Del carcere femminile se ne parla poco e male - dice una di loro - i piccoli numeri che siamo non fanno testo e nessuno fa niente. Se sei forte ce la fai, altrimenti entri a testa bassa, da vittima, ed è lì che inizia davvero la tua prigione”. Quando si intravede il fondo, le detenute scoprono “la soluzione”. “Meglio anestetizzarti per sospendere il pensiero, perché se pensi impazzisci - è drammatico questo racconto - In carcere lo chiamavamo il carrello della felicità: tre volte al giorno, a volte quattro, passano gli infermieri per la distribuzione dei farmaci”.

L’ultima indagine dell’associazione Antigone rivela che quasi il 64 per cento delle donne detenute fa uso di farmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici o neurologici. “Insieme alla tossicodipendenza, il disagio psichico è la seconda causa di suicidio femminile dietro le sbarre”, spiegano i volontari.

Un’altra intervistata parla di “diritto alla salute negato”. Spiega: “Per una donna l’ingresso in carcere rappresenta un’esperienza lacerante, tutto è amplificato, un tumulto di sofferenza e preoccupazioni che il corpo, piano piano, somatizza fino a manifestare quella sofferenza sottopelle che mai nessuna cura potrà alleviare. Ecco, allora, perché è importante la prevenzione. Ma, troppo spesso, in carcere mancano medici e psicologi. Quelli che ci sono fanno un lavoro straordinario, ma sono davvero troppo pochi”. Le donne a Rebibbia chiedevano più visite della ginecologa: “Per fare esami di routine come il Pap test, la mammografia, lo screening globale. Esami che non possono diventare un lusso”.

Nel carcere italiano maschiocentrico nell’anima, è difficile pure far partecipare le donne ad attività e progetti: “In alcune sezioni mancano anche le attività scolastiche, perché non ci sono i numeri minimi necessari per comporre una classe”, denuncia la ricerca di Katya Maugeri. E allora le detenute devono accontentarsi di fare lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo sospeso del carcere: “Attività figlie di una visione stereotipata e patriarcale secondo cui le donne possono e devono svolgere solo questo genere di mansioni”, protesta un’ex detenuta. Commenta l’autrice del libro-denuncia: “Occorre però specificare che la discriminazione non nasce da una reale volontà istituzionale, bensì dalla mancanza totale di una rigorosa riflessione sulla differenza di genere”. Che è forse ancora più grave. Sulle donne dietro le sbarre c’è insomma una grande approssimazione: rappresentano solo il 4,2 per cento della popolazione carceraria, ma non possono essere certo trascurate.

“Il carcere è già un non mondo - racconta un’altra donna - Con l’arrivo della pandemia è crollato addosso alle nostre fragilità. E tante di noi hanno raddoppiato la terapia di psicofarmaci per non pensare. Ma le pillole non possono essere la soluzione per vivere qui dentro”.